Sistema previdenziale, occorre una riforma autentica.
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Modulo
per i lavoratori assunti dopo il 31 dicembre 2006
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Modulo
per i lavoratori assunti prima del 31 dicembre 2006
Da diversi
decenni, ormai, la discussione sulla spesa pensionistica tiene periodicamente
banco sulle prime pagine dei giornali e forma argomento di dibattito e di
contrasto tra le parti sociali di questo paese.
Negli
ultimi anni, il sistema previdenziale è stato oggetto di riforma a più riprese
e ad intervalli sempre più ravvicinati (tanto che ogni governo ormai vara la
sua “riformina”) sempre e solo nell’ottica di
un ridimensionamento, più o meno accentuato, dei trattamenti pensionistici dei
lavoratori dipendenti.
Ed ogni
volta il discorso viene ripresentato con i consueti catastrofismi e con i
soliti appelli alla “solidarietà generazionale”, stimolando uno strumentale
senso di colpa verso le generazioni prossime, che verrebbero fortemente
penalizzate nel caso malaugurato che i lavoratori attuali non si sacrificassero
per loro..
Attualmente
la partita si svolge sul terreno dello spostamento di risorse verso i Fondi
pensione integrativi. La riforma del TFR del governo Prodi costituisce un
passaggio dirompente a favore di questo spostamento.
Essa,
infatti, rovescia la salvaguardia del rendimento garantito dei contributi TFR
(proprio per i giovani ed i neo – assunti che a parole si dice di voler
“proteggere”) a favore di un investimento nei Fondi affidato ai parametri
variabili ed incerti legati al mercato finanziario.
Questo
cambiamento costituisce, insieme al rovesciamento effettuato dalla riforma Dini
del 1995 per il sistema di calcolo da retributivo a contributivo, un caposaldo
del processo di ristrutturazione del sistema pensionistico.
Come
lavoratori che operano, direttamente o indirettamente, nel settore
previdenziale, abbiamo molte perplessità su questo argomento e siamo spinti a
fare un ragionamento che non si basi su difficili proiezioni statistiche o
formule matematico – economiche, di difficile comprensione e che non sempre si
prestano ad interpretazioni univoche.
Proprio
l’insistenza con cui pervicacemente si continua a voler dimostrare che la carenza di risorse per il sistema previdenziale è
causata dalle numero e dall’ ammontare delle pensioni attualmente pagate, ci
convince di partire proprio da questi due capisaldi (sistema contributivo e
fondi pensione).
Facciamo
una ipotesi su un lavoratore “medio”, la cui retribuzione oggi si aggira
intorno ai 1200 €uro mensili.
Per quanto
riguarda il TFR, egli, dopo 35 anni di lavoro, con il sistema tradizionale
verrebbe a percepire, a conclusione del rapporto di lavoro, una somma di circa
60.000 €uro.
Paragoniamo
ora questa cifra con quanto riceverebbe se per lo stesso periodo di 35 anni
egli avesse versato i suoi contributi TFR ad un Fondo pensione, come previsto
dalla riforma.
In
una ipotesi ottimistica, in cui il Fondo gli garantisca un buon rendimento,
alla fine della sua vita lavorativa, il lavoratore percepirebbe circa 130 €
mensili di rendita vitalizia.
Per
arrivare ad ammortizzare (cioè a vedersi restituita), con questa rendita,
l’importo che avrebbe ricevuto con il TFR “tradizionale”, il lavoratore
dovrebbe vivere, dopo il collocamento in pensione, la bellezza di altri 37
anni.
Se
consideriamo un lavoratore che per esempio va in pensione a 60 anni, che è
ormai il minimo per raggiungere i 35 anni di contribuzione, dovrebbe arrivare
all’età di 97 anni.
Consideriamo
ora l’aspetto che riguarda i contributi previdenziali. Lo stesso lavoratore,
dopo i suoi 35 anni di contribuzione, avrebbe versato circa 240.000 €uro
totali. Calcolando la sua pensione con il sistema contributivo, cosě come
prevede a regime la mega-riforma Dini, anche in questo caso, solo per
riprendere il capitale costituito dai contributi versati, senza alcun
interesse, egli dovrebbe vivere per almeno 30 anni dall’inizio del
pensionamento.
Questo
ragionamento quasi banale nella sua semplicità ci porta a concludere che tutti
gli argomenti e le tesi che hanno sostenuto e sostengono le tesi “riformiste”
per il sistema previdenziale nascondono solo una colossale trappola tesa ai
lavoratori, un imbroglio che ha il solo
scopo di prelevare risorse finanziarie, vuoi per ripianare i conti
pubblici, vuoi per favorire le varie forme di previdenza assicurativa privata.
Occorre una
riforma vera, un capovolgimento del concetto che la spesa previdenziale sia la
causa principale del deficit pubblico. Questo è determinato da fenomeni
patologici ben più gravi dal punto di vista morale e molto più ingenti dal punto di vista
quantitativo.
L’evasione
e l’elusione fiscale e contributiva, ormai accertate in termini di svariate
centinaia di miliardi di €uro ogni anno, le malversazioni e gli sprechi legati
alle collusioni del mondo politico con settori affaristici di pochi scrupoli,
il sovraccarico dell’assistenza pubblica sostenuto sempre e comunque dai
contributi dei soli lavoratori dipendenti sono solo alcuni degli aspetti che
regolarmente vengono sottaciuti e che soprattutto ci si guarda bene
dall’affrontare in termini seri e decisivi.
Una
autentica riforma del sistema previdenziale non può che partire, al contrario
di quello che si fa usualmente, dalla constatazione che esiste una
sovrabbondante moltitudine di pensionati che percepiscono pensioni al limite ed
al di sotto della soglia della miseria, le quali sono state l’unico obiettivo
da attaccare per chi sostiene che sia necessario risparmiare sulla spesa
previdenziale.
Occorre
constatare anche che, allo stesso tempo,
esiste una fascia quantitativamente non trascurabile, di pensioni “d’oro” che
invece costituiscono un pozzo senza fondo che assorbe, per gli importi che
vengono pagati, la maggior parte delle risorse che queste riforme-imbroglio
pretendono di salvaguardare.
Si pensi a
quanti parlamentari, magistrati, professori universitari, primari e dirigenti
sanitari, dirigenti di ministeri e uffici pubblici, dirigenti bancari, alti
ufficiali delle Forze Armate e delle Forze dell’Ordine, dirigenti di partito o
di organizzazioni sindacali e altre categorie simili ricevono pensioni
esorbitanti rispetto alla media percepita dagli altri lavoratori.
Per
ciascuno degli appartenenti a queste categorie non si va mai al di sotto di 5000
€uro mensili di pensione, ma per le categorie più privilegiate si
raggiungono soglie di diverse decine di migliaia di €uro, sempre mensili, anche
per effetto di cumuli di pensioni per funzioni svolte in diversi settori (ad
esempio il passaggio Banca d’Italia à Parlamento à Governo à Presidenza della repubblica – vi
ricorda qualcuno?).
Si deve
anche considerare che queste personalità, in genere, dopo il pensionamento
continuano a ricoprire altre cariche o a svolgere funzioni di “consulenza”
presso enti pubblici e privati, che forniscono loro altro reddito aggiuntivo.
Una
personalità di questo tipo può arrivare, per esempio a percepire 36.000 €uro di
pensione mensile. Che sproporzione con le 100 pensioni sociali che sarebbe
possibile pagare con la stessa somma!!
Abbiamo
calcolato che gli appartenenti a queste categorie di pensionati, chiamiamoli
agiati, non sono meno di 1.500.000. Lasciamo a chi legge il divertente calcolo
sulla spesa che queste pensioni comportano.
Una riforma
che si proponga di razionalizzare ed economizzare nella spesa previdenziale,
quindi, non dovrebbe prescindere da queste considerazioni. Essa dovrebbe
proporsi due obiettivi:
-
da
un lato di ridurre l’evidente squilibrio tra quanto viene destinato alla fasce
più numerose di lavoratori pensionati, alzando il tetto minimo della pensione
erogabile, tetto che potrebbe essere fissato a 1000 €uro, che è la somma
generalmente considerata come soglia al di sotto della quale si appartiene alla
fascia di povertà;
-
dall’altro
incidere decisamente sull’ammontare della spesa globale, costituendo un tetto
massimo inderogabile alle pensioni più privilegiate, con un limite fissato ad
esempio a 5000 €uro, somma già ampiamente sufficiente a garantire un alto
tenore di vita
Solo a
queste condizioni potrebbe essere opportuno “aprire” il sistema alla previdenza
integrativa, lasciando la totale libertà di aderirvi, specie a coloro che hanno
retribuzioni che glielo consentono.
In altre
parole, in presenza di una garanzia data dall’applicazione di una soglia minima
per le pensioni, assicurata anche a quelle categorie che a causa della
discontinuità della loro attività (precari) o perché soggetti a processi di
ristrutturazioni e licenziamenti non possono costruirsi attraverso la
contribuzione “normale”, tant’omento con quella integrativa, una pensione
dignitosa, non ci sarebbe ragione di opporre ostacoli a chi, godendo di un
reddito adeguato, decidesse di investire nei Fondi integrativi, per costruirsi
una trattamento pensionistico per mantenere il proprio tenore di vita.
Stando ai
progetti che circolano, invece, i ceti meno privilegiati rischiano ancora una
volta di essere l’obiettivo principale ed esclusivo delle manovre
“riformatrici”. Chiediamo perciò alle forze politiche e sociali a cui questi
ceti fanno riferimento, ceti che formano la parte preponderante del blocco
sociale che le sostiene, di prendere posizione su queste proposte e di agire
conseguentemente nelle sedi e nei tempi più opportuni perché esse vengano in
qualche misura prese in considerazione.
30.01.2007
Ettore Davoli
lavoratore INPDAP