SINDACATO NAZIONALE UNIVERSITA’ E RICERCA – PADOVA

 

ELEZIONI PER IL RETTORE DELL’UNIVERSITA’ DI PADOVA – TRIENNIO 2002/2005

A PROPOSITO DI “FONDAZIONI UNIVERSITARIE”.

In uno dei punti programmatici esposti, il prof. Milanesi apre un ragionamento ed avanza una proposta per la costituzione di una Fondazione “Università di Padova”. E’ una questione importante e di attualità che merita, anche separatamente rispetto a tutte le altre, un approfondimento ed un’ampia discussione. Tant’è che già su Il Mattino di Padova del 23 maggio è comparso un articolo del prof. F. Meacci, proprio su tale questione.

Solo obliquamente conviene tener presente che già da tempo si sono costituite “formazioni” di sostenitori convinti delle Fondazioni (all’interno di un’ottica più generale favorevole al processo c.d. di liberalizzazione-modernizzazione del Paese) e, di converso, “movimenti” di opinione assolutamente e pregiudizialmente contraria.

Lo sforzo che qui vogliamo fare è quello di cercare di entrare più nel merito dei problemi che una tale proposta mette concretamente in campo.

Il primo, in tema di “autonomia”.

Il processo che ha avviato l’autonomia universitaria data dall’89 (L.168/89 che ha introdotto l’autonomia statutaria) con (il compianto) Antonio Ruberti a capo del primo dicastero dell’URST. Si è poi sviluppato, per tappe, aggiungendo sempre più ambiti di poteri e responsabilità all’autonomia (finanziaria, con L.537/93; didattica con L.508/99). Ma la spinta più forte, almeno da un certo momento in poi, è stata quella dettata dall’incombenza del risanamento dei conti pubblici attraverso la razionalizzazione (più spesso intesa come necessità di operare “tagli”) della spesa pubblica (D.Lgs. 29/93 e successive modifiche).

Qual è il punto allora? Il presupposto secondo il quale l’istruzione universitaria “pubblica” (e le intrinseche attività di studio e di ricerca), intesa come un alto dovere dello Stato (tutelato dalla carta costituzionale), subisce, soprattutto nel corso degli anni ‘90, una metamorfosi per assumere i connotati di un “servizio” (uno dei tanti) alla collettività i cui costi devono essere sostenuti dai più diretti “utenti” (o, peggio, “clienti”). Tra questi, in primis, gli studenti. E, poi, i portatori di interessi culturali, sociali ed economici a livello territoriale (pubblici e privati, ristretti o diffusi). Da ciò deriva, immediatamente, l’ovvia conseguenza che ogni Ateneo, ormai pienamente responsabile della propria autonomia, deve trovare margini di autofinanziamento sempre più ampi rispetto all’impegno finanziario statuale. Lo Stato, anzi, attraverso le maggioranze parlamentari e governative che si è trovato e che, soprattutto ora, si trova ad avere, ha avviato chiare politiche di contenimento della spesa. I tagli imposti dall’ultima legge finanziaria, tanto all’istruzione superiore, quanto alla ricerca, hanno già evidenziato le difficoltà in cui si trovano ad operare, ad es. il CNR, e messo in crisi i bilanci di previsione di molti Atenei (Padova compreso).

Quali fonti di autofinanziamento autonome sono allora possibili?

1.      Tasse e contributi degli studenti. A questo riguardo, l’Ateneo di Padova ha raggiunto un livello di copertura, rispetto alle entrate totali accertate nel 2001, pari al 13,6%, con una dinamica incrementale, tra il 1998 ed il 2001, superiore a quella dei finanziamenti ministeriali (di almeno 2 punti percentuali in più). In cifre assolute, gli importi complessivi per tasse e contributi, non possono discostarsi dai valori medi di altre sedi universitarie, verso le quali potrebbero, più convenientemente, orientarsi gli studenti. In più, la Regione Veneto destina, per il diritto allo studio universitario, risorse significativamente inferiori a quelle di altre regioni con sedi universitarie potenzialmente concorrenti con Padova. Se le “leggi di mercato” non vengono bypassate solo in questo caso con un colpo di bacchetta magica, non possono esserci aspettative di espansione da questa fonte.

2.      Vendita di servizi all’esterno. Consulenze e contratti per conto di enti pubblici o privati esterni sono stati da sempre una fonte di acquisizione di risorse “aggiuntive” per gli Atenei. L’analisi sarebbe assai più complessa, ma volendoci fermare ad una grossolana approssimazione si può affermare che i limiti fisiologici di tali attività derivano, per un verso, dai limiti di dotazione di personale (docente e tecnico) occupabile per tali attività e, per altro verso, dalla necessità di non trasformare l’università in “bottega”, con la conseguenza di penalizzare le sue prioritarie attività istituzionali. In più, negli ultimi anni, per motivi legati alla remuneratività per i soggetti direttamente coinvolti, buona parte di tali attività è stata formalmente “dirottata” verso strutture collaterali o interagenti con l’Ateneo (sottraendo, così, risorse all’Ateneo stesso).

Non sono disponibili, al riguardo, dati certi di bilancio confrontabili rispetto agli anni scorsi, ma quelli che ci sono dicono che nel 2001 l’attività commerciale dell’Ateneo ha portato in cassa circa 6 MLD di lire (0,7% del totale entrate accertate) che, includendo i dati delle strutture a bilancio autonomo (Dipartimenti e Centri), arrivano a 41 MLD (cioè il 4,7% del totale entrate accertate). Probabilmente molto ancora può essere fatto, se solo si volesse, per ricorrere a questa modalità di rapporti economici (e non solo) con l’esterno, sia potenziando le strutture che già possono contare su una solida domanda di servizi, sia attivando altre strutture cui finora sono solo mancati progettualità e supporti operativi. Non si vede, in definitiva, dove siano i limiti e le difficoltà normative (o burocratiche) perchè l’Ateneo gestisca “in proprio” questa attività commerciale senza bisogno di trasferirla in capo ad altra struttura (ancorchè da essa totalmente “controllata”).

Complessivamente, il totale delle entrate proprie, relative al 2001, dell’Ateneo costituisce già il 32,8% del totale complessivo. Ora, più che discettare se tale risultato sia “già tanto” (e quindi nulla andrebbe fatto) o “ancora poco” (e tanto occorrerebbe quindi fare per spingere verso la vendita di servizi a terzi), sarebbe più utile riflettere sul fatto che:

a.       l’Ateneo non può perdere di vista la sua precipua e istituzionale missione e, quindi, tali attività sono possibili solo in quanto con essa compatibili (attraverso il miglior impiego possibile dei “fattori produttivi” interni). Semmai, ciascun Ateneo dovrebbe si procurarsi specifiche linee di autofinanziamento “aggiuntive”, ma per “fare qualcosa di più” rispetto al fatto di garantire un completo e sufficientemente alto livello di formazione universitaria. Soprattutto ora, con la riforma degli ordinamenti in atto (“3+2”) che comporta anche una maggiore articolazione dei titoli e dei livelli formativi. Quel qualcosa “in più” che potrebbe servire, ad esempio, ad affrontare la contraddizione (da molti evidenziata) connessa ad una riforma che ancora pone margini di contrapposizione e ambiguità tra gli obiettivi formativi “di base” e quelli più immediatamente “professionalizzanti”;

b.      la collettività, e per essa lo Stato, non può abdicare, nel suo interesse più diffuso, ad investire sulla formazione universitaria e sulla ricerca scientifica e tecnologica risorse adeguate (in linea con quanto già fanno i paesi sviluppati direttamente in competizione) capaci di assicurare alti e sicuri standards di efficienza competitiva in questo quadro di economia globalizzata. Se la politica governativa attuale è quella di ulteriormente ridurre tali risorse, l’impegno a cercarsi forme di autofinanziamento - per garantire le attività istituzionali - da parte degli Atenei, diventa una forma di “complicità” irresponsabile, se finalizzata al risultato di attestarsi, al massimo, ai livelli di investimento attuali (che, come detto, non sono all’altezza della sfida competitiva mondiale).

In definitiva, il primo profilo considerato, sull’autonomia finanziaria, porta a dire che non bisogna perdere di vista l’obiettivo di un incremento complessivo degli investimenti in alta formazione e ricerca, attivando in positivo gli impegni di tutti i soggetti istituzionali coinvolti. Non già quello di mettere in condizione lo Stato di ridurre ulteriormente il già magro budget destinato a tali fini, e di sollecitare le singole sedi universitarie ad attivare il “fund raising” citato dal prof. Meacci, che vede favorevolmente la costituzione della Fondazione proprio con questa finalità. Ed è proprio in questo “spostamento di baricentro” nei meccanismi di finanziamento delle Università che si possono vedere le cose in modo sensibilmente diverso rispetto alla positività degli effetti attesi dalla costituzione di fondazioni universitarie.

Il secondo, relativo ai rapporti giuridici con il personale.

Il Regolamento (D.P.R. 254 del 24 maggio 2001) prevede (Art.14) che “I rapporti di lavoro dei dipendenti delle fondazioni sono disciplinati dalle disposizioni del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato e sono costituiti e regolati contrattualmente”. Delle richiamate fonti giuridiche relative alla costituzione e disciplina dei rapporti di lavoro, guarda caso, manca oggi del tutto quella contrattuale. Manca proprio nel senso che non esiste “il” Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro per tale tipologia di lavoratori dipendenti dalle fondazioni (così come manca per le Università private, che hanno solo una contrattazione collettiva aziendale). E non vi è chi non veda che una tale prospettiva, almeno per il momento, è pura utopia. Non risulta neanche così tanto strano che alcuni possano pensare a forme di contrattazione meramente “individuali” (è nella logica interpretativa che traspare su alcune funzioni e finalità disegnate per le fondazioni). Ma questa norma giuridica sulle “fonti” apre anche un’altra ambiguità: qualora siano docenti e/o ricercatori universitari, anche per evidenti ragioni legate alle finalità dichiarate delle fondazioni, ad entrare alle “dipendenze” della fondazione, quale regime si vedrebbero applicare? quello soggetto a riserva di legge? quello derivante da un contratto individuale di diritto privato? o un regime misto?

A meno che non vengano costituite come quelle tante “scatole cinesi” che intorbidano il sistema societario e finanziario, le fondazioni dovrebbero (o potrebbero) arrivare ad includere tutto il personale dipendente dell’università che la costituisce. In questo caso, la disciplina dei rapporti sarebbe necessariamente uniforme, nel bene come nel male. Ma se così non fosse e si aprisse invece la strada per rapporti di lavoro volutamente meno “tutelati” giuridicamente ed economicamente in direzione di una spinta alla deregolazione di tutti i rapporti di lavoro? O, al contrario, potrebbe anche succedere che le fondazioni diventeranno delle sedi “privilegiate” per qualità del lavoro e per livelli di reddito, aprendo un fronte di confronto e conflitto con tutto il personale universitario? Entrambi questi scenari, per ora solo in parte astratti, ancorchè prevedibili, costituirebbero un problema non da poco e non facilmente superabile in un prossimo futuro.

Soprattutto su tali questioni, l’interesse e l’attenzione di una organizzazione sindacale non possono che essere di massima vigilanza per fare in modo che una pur giustificata flessibilità non diventi, impropriamente, fonte di deregulation totale e di destrutturazione dei rapporti di lavoro.

Il terzo, relativo alla “governance.

Già oggi uno dei problemi legati alla gestione politica ed amministrativa di una realtà articolata e complessa come l’Università di Padova risiede nella difficoltà di rapporti e di funzionamento dei numerosi “organi accademici”. Ma anche dalla necessità di consolidare i rapporti tra i vari uffici dell’Amministrazione centrale, solo recentemente costituiti con precise “missioni” orientate alle “relazioni esterne” dell’Ateneo, e le diverse strutture didattiche e scientifiche e i diversi settori scientifico-disciplinari. Tanto traspare anche dai documenti fin qui prodotti, in avvio della campagna elettorale per il nuovo Rettore.

In questo caso il rischio che comporterebbe la nascita di un nuovo “soggetto”, la Fondazione, è quello di ingarbugliare ancor di più la trama dei rapporti in termini di competenze, funzioni, poteri così come distribuita (oggi in modo non pienamente efficace) tra i vari organismi di Ateneo.

Ciò si desume anche dalla lettura delle “tipologie di attività attribuibili alle fondazioni” (Art. 2, c.1, del DPR 254/2001), laddove queste sembrano investite di una operatività tipica di strutture amministrativo-gestionali che solo da poco tempo (almeno a Padova) sono state configurate ed attivate nell’ambito della riorganizzazione dell’Amministrazione centrale.

Né, d’altro canto, risulta ben evidente quali siano (e se effettivamente vi siano) ostacoli ad una gestione diretta e responsabile, da parte dell’Ateneo stesso, delle attività richiamate.

Sotto quest’ultimo profilo appare debole l’apporto fornito dal prof. Meacci, quando sostiene tra i vantaggi conseguibili “..la possibilità di assumere in organico (con contratti di diritto privato e con riduzione di costose consulenze esterne) personale tecnico altamente qualificato per la realizzazione o gestione di strutture permanenti (...). Un altro riguarda le attività formative di punta (i dottorati) e le attività complementari (i Master, le scuole di specializzazione, i corsi di formazione permanente e, soprattutto, i futuri corsi a distanza) la cui gestione richiede maggiore flessibilità rispetto a quella tipica delle attività formative tradizionali. Un terzo esempio potrebbe infine riguardare il trasferimento alle imprese dei risultati della ricerca applicata e la promozione di imprenditorialità qualificata fra i laureati o i ricercatori più giovani che lasciano l’università.”

Tra tutti gli esempi prodotti ve ne sono sicuramente alcuni che andrebbero presi attentamente in considerazione (come quelli relativi all’interfaccia con i servizi logistici per gli studenti, attualmente di competenza della Regione e degli Enti per il diritto allo studio, o quelli legati a forme non tradizionali, e più estensive, di didattica (quanto ad orari o all’impiego di metodologie telematiche e “a distanza”)). Ma per il resto sembrano, appunto, attività per le quali l’Ateneo ha già tutte le opportunità per rivedere i propri modelli organizzativi, formare il personale necessario a svolgerle al proprio interno e attivare le iniziative necessarie.

IN CONCLUSIONE

Si può tranquillamente affermare che l’ipotesi di far ricorso alla costituzione di una fondazione “Università di Padova” può essere interessante, ma alcuni nodi di fondo andrebbero preliminarmente chiariti ed affrontati:

1.      riguardo alle finalità. Già una prima contraddizione si rileva tra il dato normativo principale (Art. 59, commi 1 e 2, della L.388/2000) ed il Regolamento attuativo (Art. 2 del DPR 254/2001) che, prevedendo un campo esteso di tipologie di attività, depotenzia - in qualche modo - la disposizione primaria (Art. 59, comma 3, L.388/2000) di “osservanza del criterio della strumentalità rispetto alle funzioni istituzionali, che rimangono comunque riservate all’università”. Il fine “primo” della norma di cui all’Art. 59 della L.388/2000, è bene ricordarlo, è quello di attrezzare le amministrazioni pubbliche per l’ acquisto di beni e servizi degli enti decentrati di spesa “alle migliori condizioni di mercato” e poi anche quello dello “svolgimento di attività strumentali e di supporto alla didattica e alla ricerca” (attraverso, appunto, fondazioni). Il carattere della “strumentalità” è quello che dovrà segnare i confini di funzioni, competenze e poteri tra fondazione e università (qualora si abbia intenzione di procedere in tal senso).

2.      riguardo al sostegno finanziario. La presentazione di progetti “strumentali” che consentano di ampliare e potenziare l’offerta formativa e delle attività di ricerca, oltre quella che istituzionalmente e strutturalmente l’Ateneo può oggi fornire, facendo ricorso ad una struttura di “supporto” (la fondazione), può stimolare l’interesse di tutti quei soggetti, pubblici o privati, presenti territorialmente nel senso indurli a “partecipare” finanziariamente all’impresa. Il carattere principale di questa collaborazione è quello della messa a disposizione di risorse “aggiuntive” al fine di ottenere una serie di servizi “aggiuntivi” rispetto a quelli che ora l’Ateneo è in grado di dare. E, su questo, ha pienamente ragione il prof. Meacci a lanciare la sfida!

3.      riguardo al sistema di “governance”. Occorre fare in modo che questa, che comunque si presenta come una “esternalizzazione” di compiti e funzioni, non diventi ulteriore fonte di problemi nel dialogo istituzionale e nei rapporti funzionali tra i vari organismi accademici, strutture ed uffici risultando, alla fine, un intralcio più che un aiuto verso una più spinta efficacia ed efficienza.

4.      riguardo al modello di rapporti giuridici ed al sistema delle relazioni sindacali. Come s’è capito anche prima, il sindacato non può avallare nessuna ipotesi che abbia alla base il presupposto di una deroga dal sistema contrattuale consolidato e che porti dritto verso una riduzione del grado di tutele oggi esistenti per tutti i lavoratori.

A tale riguardo non è neanche pensabile che un eventuale progetto di avvio (per la costituzione di una fondazione universitaria) non veda l’apertura di specifiche sedi di confronto con le rappresentanze sindacali dei lavoratori sia sulle questioni di “assetto” e di regole (Statuto ed eventuali Regolamenti), che sulle questioni che coinvolgono direttamente gli interessi dei lavoratori stessi (così come, peraltro, risulta essere avvenuto nel caso - citato dal prof. Meacci - del Politecnico di Milano, ora in fase di redazione dello Statuto).

p. SNUR CGIL PADOVA
Paolo Perna


Padova, 24.05.02