Le fondazioni universitarie: riflessioni critiche
Antonio Viscomi (*)
1. Mi è stato affidato il compito di proporre
alcuni spunti critici per una discussione sulle fondazioni universitarie. A tal
fine, intendo articolare il mio intervento in due parti. Nella prima, vorrei
richiamare l’attenzione sui più ampi processi di ristrutturazione del lavoro e
dell’organizzazione pubblica: in particolare, mi interessa
evidenziare le diffuse pratiche di "esternalizzazione"
dei servizi che da qualche anno coinvolgono, con alterne movenze e con
dinamiche non sempre lineari, la galassia pubblica. Nella seconda parte, a
carattere più specifico, mi occuperò precisamente delle fondazioni
universitarie. In verità, nella duplice scansione temporale e logica che
intendo seguire è lecito intravedere l’operare di un consolidato e tradizionale
meccanismo retorico che l’osservazione del dato particolare realizza prendendo
avvio e spunto da quello generale. Se mi si consente di essere
franco, considero questo stratagemma abitualmente noioso per chi ascolta; in
questa occasione, tuttavia, credo che l’assunzione di una prospettiva più ampia
sia oltremodo necessaria e che l’osservazione di alcune delle più recenti
vicende relative non soltanto al comparto di interesse ma al sistema pubblico
nel suo complesso aiuti a comprendere il senso stesso ed il significato della
introduzione delle fondazioni nel sistema dell’istruzione e dell’istituzione
universitaria.
2. Vorrei subito precisare che per ristrutturazione
del lavoro pubblico non intendo riferirmi al processo riformatore avviato con
la legge delega del 1992, ma più precisamente (e in modo volutamente
provocatorio) ai criteri e metodi di organizzazione e
gestione del personale recentemente proposti dal legislatore e caratterizzati
dall’uso paradossale, e per alcuni versi anche parossistico, del blocco delle
assunzioni. Uno strumento abitualmente (e logicamente) connesso alla ristrutturazionene organizzativa (secondo lo stile noto
come "stop & go",
segnato dalle sequenza che al blocco fa seguire prima
la riorganizzazione e poi le assunzioni) risulta così trasformato una rozza
modalità di contenimento della spesa pubblica e di spicciolo incremento della
produttività individuale, privo di alcuna reale correlazione con le esigenze e
gli obiettivi di efficienza ed efficacia organizzativa. Emblematico,
da questo punto di vista, il blocco delle assunzioni del personale docente
delle università in un contesto segnato dalla innovazione del sistema
didattico. E si tratta di effetti resi ancor più intensi
dal fatto che il blocco delle assunzioni a tempo indeterminato si accompagna,
con usuale costanza, alla esclusiva autorizzazione alla stipulazione di
contratti flessibili come strumento privilegiato per l’acquisizione di forza
lavoro (l’altro canale essendo dato dalle procedure di mobilità, sulle quali,
forse, sarà bene prima o poi, e per varie ragioni, focalizzare l’indagine
critica). Proprio per questo motivo, alla figura professionale tipica del
pubblico dipendente incardinato a tempo pieno ed indeterminato si affianca
ormai, ed in alcuni settori anche in misura preponderante, una pletora di
figure professionali assunte con contratto a termine, di collaborazione o
interinale. In questa prospettiva, la necessità di controllare e ridurre i
flussi di spesa connessi al personale (quand’anche autonomamente garantiti
dalla stessa amministrazione interessata) solleva un difficile dilemma rispetto
all’esigenza di valorizzazione della dimensione propriamente organizzativa, la
qual cosa si traduce poi nella tensione, e spesso nella vera e propria
contraddizione, tra gli effetti centripeti derivanti dalle esigenze di
controllo finanziario e le istanze centrifughe
innervate e giustificate dai reali bisogni organizzativi.
3. L’altro elemento sul quale vorrei preliminarmente
riportare l’attenzione è segnato dalla diffusa
valorizzazione legislativa delle pratiche di c.d. esternalizzazione
come modello e strumento di rinnovamento organizzativo dei servizi, in funzione
tanto di una riduzione dei costi quanto di un incremento di efficienza. Il
termine utilizzato è generico, ma consente di rappresentare sinteticamente
figure organizzative e fattispecie giuridiche tra loro notevolmente differenziate. A conferma di questa variabilità semantica
può essere utile segnalare la legge n. 448 del 2001, che mentre all’art. 16
tratta della "terziarizzazione del servizio", all’art. 28 disciplina
la trasformazione dei soggetti pubblici in soggetti privati, (disponendone se
necessario anche la trasformazione in società per azioni o fondazioni di
diritto privato, ovvero la fusione, l’accorpamento con enti ed organismi che
svolgano attività analoghe o complementari), ed all’art. 29 qualifica
espressamente a stregua di esternalizzazione
l’affidamento a soggetti terzi, eventualmente costituiti ad hoc, dei servizi originariamente prodotti dalla struttura
pubblica. Naturalmente, l’ambiguità lessicale potrebbe non essere rilevante, e
l’osservazione rivelarsi frutto di mera acribia, se non fosse accompagnata da
almeno due elementi di contesto: per un verso,
l’incertezza nella qualificazione formale delle diverse ipotesi di esternalizzazione (anche nell’ambito dello stesso testo
normativo, come si è visto) sembra mettere in scena una qual sorta di parallela
incertezza concettuale del legislatore nella preliminare individuazione e
qualificazione di un percorso ordinato di riorganizzazione amministrativa; per
altro verso, quella stessa incertezza, accompagnata dal proliferare verboso di
riferimenti alla dimensione privatistica delle esternalizzazioni, sembra suggerire un vago senso di
ineluttabilità del fenomeno, quasi come le esternalizzazioni
fossero l’unico strumento in grado consentire un recupero di efficienza ed una
riqualificazione della spesa. Ciò considerando, risulta
confermato che il termine "esternalizzazione"
rinvia non tanto ad una specifica forma o fattispecie giuridica ma piuttosto ad
un processo, complesso e dinamico, di riorganizzazione strutturale e funzionale
del sistema di produzione ed erogazione di beni e servizi pubblici.
4. La complessità ed il carattere dinamico di tale
processo trovano conferma nel diverso orientamento destinato a riconfigurare in modo snello, e sulla
base di una logica di tipo networking o
reticolare, il sistema pubblico nel suo complesso. Intendo riferirmi all’estensione
anche in altri comparti della pubblica amministrazione delle forme di organizzazione a rete degli stessi enti, e non solo di esternalizzazione della relativa attività, già sperimentate
nel comparto delle autonomie locali in virtù della legge 142 ed ora consolidate
nel testo unico di cui al d.lg. 267. In questa
prospettiva, l’esternalizzazione dei servizi si
affianca alla introduzione di modelli di
riorganizzazione sistemica delle strutture e degli enti pubblici in grado di
ridisegnare alla radice il tradizionale assetto dell’apparato amministrativo
basato sulla articolazione territoriale delle competenze. E’ in questa
prospettiva che può essere letta la previsione dell’art. 59 della legge 388 del
2000, in virtù della quale si promuovono le aggregazioni
di enti decentrati al fine di elaborare strategie comuni e convenzionali per
l’acquisto di beni e servizi. Si tratta, com’è facile intuire, dell’embrione
originario, ed all’origine meramente volontario, del modello poi sperimentato
(con carattere obbligatorio) con la Consip; embrione
di disciplina, si diceva, dettato inizialmente solo per le aggregazioni
di province e comuni, di aziende sanitarie e ospedaliere, ed inoltre – con
previsione naturalmente non priva di interesse – anche per le aggregazioni volontarie
di più università appartenenti a regioni diverse.
5. A dire il vero, tale
orientamento verso una riorganizzazione leggera (o lean come usano dire i cultori
delle scienze aziendali) delle pubbliche amministrazioni non è certo frutto di
recente acquisizione: al riguardo, può essere sufficiente segnalare che le
norme di legge fin qui frammentariamente citate trovano fondamento giuridico e
ragione giustificativa nelle leggi di riforma amministrativa della metà degli
anni ‘90: ad esempio, è proprio la legge 59 del 1997 a consentire
l’attribuzione a soggetti terzi, anche di natura privata, di funzioni e compiti
che non richiedono l’esercizio esclusivo da parte della pubblica
amministrazione. Ciò considerando può semmai segnalarsi (e criticarsi)
l’asimmetria che in pochi anni si è instaurata tra i tratti generali del
sistema di riforma, percepibili con sufficiente chiarezza ed ispirati al
principio di sussidiarietà, e i contorni spesso
confusi dei singoli provvedimenti che quella trasformazione avrebbero
dovuto assicurare in concreto: senza richiamare i provvedimenti relativi
alla esternalizzazione dei servizi pubblici locali,
che rappresentano un corpo normativo del tutto autonomo, basti qui pensare, ad
esempio, alla disciplina dei servizi di pulizia nelle scuole o alla
riorganizzazione e privatizzazione dei servizi museali
ovvero infine, ma soltanto allo scopo di segnalare il carattere pervasivo della logica di esternalizzazione
e privatizzazione dei servizi e delle funzioni, alla disciplina delle società
di gestione dei patti territoriali. Da questa caotica ed affannata evoluzione
legislativa, caratterizzata da una (affermata ma non sempre convalidata)
equazione che l’esternalizzazione dei servizi
considera quasi sinonimo di incremento di efficienza
del sistema, derivano seri dubbi intorno all’attuale valore sociale ovvero, se
si vuole, al senso stesso del servizio e delle funzione pubblica oggi.
6. E’ in questo scenario complesso e dinamico che
deve porsi la questione delle fondazioni universitarie. Confesso che la
riscoperta odierna delle fondazioni, a motivo della loro peculiare flessibilità
organizzativa, presenta tratti non privi di paradosso, soprattutto se si
considera la manciata di articoli che disciplina
l’istituto già nel testo codice civile e le previsioni del dpr
n. 361 del 2000, che regola le modalità di attribuzione della personalità
giuridica. In verità, è proprio sulla base di tale
regolamentazione basica che l’esperienza concreta ha forgiato due modelli archetipici: da un lato, il modello delle fondazioni di
partecipazione, che si configurano sostanzialmente a stregua di patrimoni di
destinazione a struttura aperta, e dall’altro lato le fondazioni comunitarie o
di comunità, che perseguono la funzione essenziale di fund rising ed operano a stregua di strumenti
di intermediazione tra donatori e organizzazioni sociali. Per quanto riguarda
le fondazioni universitarie il punto di partenza di ogni
discussione è invece segnato dall’articolo 59, comma 3, della legge 388 del
2000. Qui, infatti, dopo avere richiamato nel comma 2 la possibilità di aggregazione tra università di diverse regioni in
funzione di una migliore organizzazione dei servizi di acquisto (ciò che prima
si è considerato come embrione originario del modello Consip),
il legislatore ha introdotto le fondazioni universitarie nel corpo del comma
terzo, all’epoca approvato da uno ampio e trasversale schieramento politico,
come strumento finalizzato non solo, e neppure tanto, alla riduzione della
spesa, ma piuttosto allo svolgimento più efficiente di attività strumentali e
di supporto alla didattica e/o alla ricerca. Credo di non errare se affermo che
ogni analisi del sistema delle fondazioni, che intenda essere consapevole tanto
dell’estensione delle opportunità così offerte al sistema universitario quanto
dell’intensità dei rischi ad esso correlati, non possa
non focalizzarsi sulla assoluta genericità ed ambiguità concettuale e semantica
dei termini utilizzati: ritengo infatti che l’individuazione del carattere di strumentalità di una attività rispetto alla didattica ed
alla ricerca, ovvero la definizione della funzione di supporto di quella a
questa, siano tali da consentire o comunque da non impedire arbitrarie
estensioni, potendo in definitiva risultare strumentale e di supporto l’attività
individuata come tale dagli enti di riferimento e da questi poi affidata alle
fondazioni. A conferma ulteriore del disordine
provocato da una legislazione alluvionale, vorrei qui segnalare ancora
l’articolo 29 della legge 448 del 2001, ai cui sensi le pubbliche
amministrazioni, sono autorizzate a costituire soggetti di diritto privato per
l’affidamento ad esse dei servizi precedentemente svolti all’interno ed al fine
di ottenere migliori servizi sul mercato. Segnalo questa norma perché la
possibilità concessa alle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto 165, e quindi anche alle università,
non è alternativa ma cumulativa rispetto alla facoltà degli atenei di istituire
fondazioni. Ond’è che – allo stato – la decisione di esternalizzare attività
universitarie può inverarsi tanto nella specie della
fondazione, quanto in quella del "soggetto privato" non meglio
definito dal legislatore nazionale e perciò rimesso alla più ampia
discrezionalità dell’amministrazione interessata, naturalmente entro i limiti
previsti in via generale dall’ordinamento.
7. Sulla base giuridica offerta dall’articolo 59,
comma 3, è stato adottato il dpr 24 maggio 2001 n.
254. Focalizzando l’attenzione soltanto su alcuni aspetti di tale regolamento,
credo necessario segnalare e sottolineare il ruolo
cardine assunto dall’ente di riferimento, cioè dall’università o dalle
università che hanno concorso a costituire la fondazione, la cui presenza,
operando in relazione alle nomine, alla definizione degli indirizzi ed
all’esercizio dei successivi controlli, sembra tanto pervasiva
da tradurre (o ridurre) in un mero gioco delle parti la dialettica interna agli
organi sociali della fondazione. Né sembra possibile enfatizzare in senso
contrario il ruolo di garanzia che pure potrebbe essere svolto, in via di ipotesi, dallo statuto, giacché la competenza ad esso
affidata dall’art. 3 del regolamento, quella cioè di definire i compiti e le
strutture operative, risulta sostanzialmente immunizzata dalle previsioni del
regolamento medesimo. In altri termini, è ragionevole ritenere che in sede di
redazione degli statuti, ed anche in considerazione della necessaria
approvazione ministeriale, gli enti di riferimento siano per così dire vittime
del noto effetto mimetico in virtù del quale nello statuto della fondazione
confluiscono tutti i possibili compiti che ad una struttura del genere
potrebbero essere ipoteticamente affidati sulla base di
quanto previsto dal regolamento. Questa considerazione vale anche per la
composizione, le competenze e la durata degli organi; ed ancora per i criteri
in base ai quali altri soggetti pubblici o privati possono partecipare e per la
definizione dei diritti e dei doveri a questi spettanti; per la destinazione
degli avanzi di gestione agli scopi istituzionali; per le modalità di erogazione dei servizi a favore degli enti di
riferimento, sulle quali dirò tra breve, ed infine per le cause di estinzione.
Siffatta centralità sistemica dell’ente di riferimento nella vita organizzativa
della fondazione è confermata ancora dalla disciplina degli organi di governo,
dal momento che il presidente, il consiglio di amministrazione
ed il collegio dei revisori sono soggetti necessariamente assoggettati al
controllo dall’ente di riferimento che in effetti nomina il primo, indica la
maggioranza assoluta dei membri del secondo (e tramite tale questi anche lo
stesso direttore generale), designa infine due membri del collegio dei revisori
ed il relativo presidente. Da questo punto di vista, la relazione organizzativa
tra enti di riferimento e fondazione risulta del tutto
unidirezionale, in guisa tale da attribuire alla fondazione – e in concreto a
tutti gli organi sociali, di gestione e di controllo – carattere servente
rispetto all’ente di riferimento.
8. Serventi sul piano organizzativo, le fondazioni
lo sono anche – sia pure con alcune peculiarità – sul piano funzionale, potendo
essere chiamate a svolgere a favore e per conto degli enti di riferimento una o
più delle tipologie di attività previste dal
regolamento. In verità, le fondazioni non sono (o possono non essere)
caratterizzate dall’obbligo di individuazione di un
oggetto sociale esclusivo, essendo invece plausibile la definizione di un
oggetto sociale tanto ampio da identificarsi con ciascuna e tutte le attività
analiticamente indicate nel regolamento: dall’acquisizione dei beni e servizi
alle migliori condizioni di mercato (il che vuol dire porsi al di fuori del
sistema della contabilità pubblica, essendo la fondazione ente di diritto
privato), allo svolgimento di attività strumentali o di supporto alla didattica
e alla ricerca scientifica con specifico riguardo al sostegno finanziario delle
attività; dalle attività integrative e sussidiarie alla didattica ed alla
ricerca, alla realizzazione di servizi e iniziative dirette a favorire le
condizioni di studio; dalla cooperazione scientifica e culturale alla
promozione di attuazione di iniziativa a sostegno dei trasferimenti risultati
della ricerca, stage ed attività formative. In effetti, se è vero (ed è vero)
che le fondazioni sono state inizialmente immaginate per assicurare funzioni di
collegamento tra impresa ed università, occorre riconoscere che nella
concretizzazione regolamentare di quella immagine
originaria le funzioni delle fondazioni si sono allargate a dismisura,
consentendo la proiezione all’esterno (e cioè proprio l’esternalizzazione)
di attività vitali ed essenziali della struttura universitaria. Da questo punto
di vista, il carattere generale e generico delle definizioni con cui il
legislatore ha individuato le funzioni delle
fondazioni è tale da provocare, e comunque da non inibire, comportamenti
opportunistici degli enti di riferimento con una conseguente lesione dei valori
di libertà connessi alla ricerca scientifica. Insomma, per dirla in breve, il carattere
strumentale di una attività quale limite al
conferimento in fondazione rischia di trasformarsi in una mera petizione di
principio dal momento che il controllo dell’attività considerata strumentale
non può che riflettersi sulla stessa attività ritenuta invece essenziale, in
guisa tale che la configurazione di quella è in grado di condizionare la reale
conformazione di questa.
9. Scendendo più in dettaglio, vorrei brevemente
richiamare l’attenzione su alcuni aspetti del regolamento. Un primo punto che mi interessa evidenziare in modo particolare è segnato
dall’art. 3 che prevedere l’impegno delle fondazioni di agevolare la
partecipazione alla propria attività di enti e amministrazioni pubbliche e di
soggetti privati, sviluppando ed incrementando la necessaria rete di relazioni
nazionali e internazionali, funzionali al raggiungimento dei propri fini. A ben
vedere, l’orientamento networking risulta
configurato come una modalità operativa possibile ma non necessaria, potendo
sussistere una relazione esclusiva (e dunque chiusa) tra ente e fondazione. Un
secondo elemento che vorrei segnalare è dato dall’articolo 12, comma 3, che
tratta dei rapporti tra enti e fondazioni relativamente alle
prestazioni (di collaborazione, consulenza, assistenza, supporto e promozione)
che queste erogano a favore dei primi. La norma affida a specifiche convenzioni
il compito di definire siffatta tipologia di rapporti funzionali ovvero, per
intenderci, di natura "commerciale": essa, tuttavia, suscita più
problemi di quanto appaia a prima vista,
consentendosi, o comunque non escludendosi, che l’ente possa conferire alla
fondazione specifiche risorse (umane, strumentali e finanzarie)
e poi da questa riacquistare i beni o servizi prodotti con quelle medesime
risorse. Le ricadute di scelte di tal genere sul sistema di protezione del
lavoro credo siano immediatamente evidenti.
10. Al riguardo, il punto di partenza è segnato
dall’art. 36 della legge 448 del 2001 ai cui sensi le pubbliche amministrazioni
sono obbligate ad apportare le necessarie variazioni in diminuzione alle
proprie dotazioni organiche in conseguenza delle attività poste
in essere sulla base della medesima legge, fra le quali v’è anche la
costituzione delle fondazioni universitarie; naturalmente, ai fini
dell’individuazione dell’eccedenza di personale e delle conseguenti procedure
di mobilità la norma rinvia alle disposizioni di legge e di contratto vigenti.
Dalla formulazione di tale previsione è ragionevole dedurre la consapevole
certezza del legislatore intorno al fatto che l’esternalizzazione
dei servizi e delle attività non possa determinare
altro di diverso da una necessaria ridefinizione in
diminuzione della dotazione organica. Questa consapevolezza giustifica
l’esplicito richiamo alla disciplina legale e contrattuale di debole tutela in
materia di gestione delle eccedenze di personale. E tuttavia, alle previsioni richiamate può forse affiancarsi
la disposizione contenuta nell’articolo 4, comma 2-h, del contratto nazionale
di lavoro, che comprende tra le materie di contrattazione integrativa le
implicazioni sulla qualità del lavoro e sulla professionalità dei dipendenti in
conseguenza dell’innovazione degli assetti organizzativi. Magra consolazione,
questa indicata, se si considera che l’intervento contrattuale riguarda soltanto
gli effetti dell’innovazione
organizzativa e non consente di ricondurre in sede contrattuale ciò che invece
il regolamento considera a stregua di scelta discrezionale dell’amministrazione
di riferimento
11. Per quanto attiene poi all’assetto dei rapporti
individuali di lavoro, credo opportuno segnalare la previsione generale
dell’art. 31 del d.lg. 165
del 2001, là dove, fatte salve eventuali disposizioni speciali, si dispone che
nel caso di trasferimento o conferimento di attività già svolte da pubbliche
amministrazioni ad altri soggetti pubblici o privati, al personale che passa
alle dipendenze di tali soggetti si applicano l’articolo 2112 del codice civile
e si osservano le procedure di informazione e di consultazione di cui
all’articolo 47, commi da 1 a 4, della legge 428 del 1990. A prescindere da
alcune pur interessanti questioni connesse alla recente promulgazione del d.lg. 276/2003, che espressamente
non si applica alle pubbliche amministrazioni ma che pure modifica l’art. 2112
citato (ond’è che può discutersi se ad applicarsi sia
il vecchio o il nuovo testo dell’art. 2112), qui interessa invece accennare
soltanto a due diverse questioni: la prima è relativa al fatto che la norma
indicata riguarda soltanto l’ipotesi di trasferimento o conferimento di
attività, restando fuori dal suo campo di applicazione tutte le diverse ipotesi
non astrattamente riconducibili alla fattispecie considerata; la seconda è
invece relativa alle configurazioni delle garanzie offerte dall’art. 2112, che
assicura la continuità del rapporto ma non necessariamente dell’originario
trattamento giuridico ed economico. Non sembra invece trovare applicazione, nel
caso in questione, l’art. 44 della legge 449 del 1997 ai cui sensi le società
private alle quali risultano attribuite le attività
dimesse sono obbligate a mantenere per un periodo di tempo concordato, comunque
non inferiore a cinque anni, il personale impegnato nello svolgimento delle
medesime funzioni trasferite. A prescindere dal dubbio se la garanzia
quinquennale riguardi il posto di lavoro o soltanto le mansioni svolte, la
norma trova applicazione espressamente ed esclusivamente per le ipotesi di
dismissioni di attività pubbliche a beneficio di
società privata: tale non sembra essere l’affidamento alla fondazione universitaria
delle attività strumentali e di supporto. E tuttavia, gli effetti
dell’eventuale trasferimento di personale interno alla fondazione potrebbero
essere di non poco momento se e quando ad esso si
affianchi un uso spregiudicato della disciplina convenzionale destinata a
regolamentare l’erogazione dei servizi dalla fondazione all’ente di
riferimento. Non credo sia irragionevole ipotizzare una sorta di trasferimento di attività e di personale dall’ente alla fondazione seguito
poi dall’acquisto o dall’appalto, a beneficio dell’ateneo, dei beni o servizi
prodotti da quelle stesse unità di personale trasferite alla fondazione. In tal
modo, risulta possibile segmentare il ciclo produttivo
tipico attribuendo a soggetti diversi, ognuno dei quali titolare di un
trattamento giuridico ed economico differenziato, l’esecuzione di un segmento
specifico. E’ chiaro dunque che un evento del genere – ben conosciuto nel
settore privato – potrebbe sollevare un significativo
problema di frantumazione della rappresentanza e un problema di pari rilevanza
per l’organizzazione sindacale.
13. Diverso ancora, e mi avvio a concludere,
è la situazione dei lavoratori assunti direttamente dalle fondazioni. L’art. 14
del regolamento dispone in tal caso che i rapporti di lavoro dei dipendenti delle fondazioni siano disciplinati dalle disposizioni del
codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato, prevedendo che
essi siano costituiti e regolati contrattualmente. Per i lavoratori assunti
direttamente dalle fondazioni la situazione è dunque oltremodo delicata. Da un
lato, essi non rientrano nel personale del comparto università: le fondazioni
sono soggetti di diritto privato estranee al sistema
del pubblico impiego. Dall’altro lato, è plausibile ritenere che la fonte
privilegiata di disciplina del nuovo rapporto di
lavoro sia il contratto individuale. E’ dunque facile profezia quella di chi
prevede una diffusa utilizzazione nell’ambito delle
fondazioni di tipologie contrattuali flessibili e temporanee. Non credo,
invece, che l’enfatizzazione della volontà individuale
sia tale da portare ad una contrattazione salariale al ribasso. Al contrario,
mi pare possa essere semmai interesse degli enti di riferimento incentivare l’apporto individuale per via di un incremento
dei livelli salariali del personale delle fondazioni rispetto a quelli
generalmente previsti per il personale del comparto. Proprio per tale motivo le
fondazioni universitarie rischiano di diventare una pietra di
inciampo per le politiche sindacali, amplificando le questioni connesse
alla perdita di efficienza dell’azione di tutela e di crisi della capacità
rappresentativa dei lavoratori operanti nelle nuove strutture. Ricomporre ad
unità il quadro degli interessi che l’introduzione delle fondazioni sembra
fortemente scardinare rappresenta la sfida, tradizionale ma sempre nuova, delle
organizzazioni sindacali operanti nel sistema universitario.
(*)
Ordinario di Diritto del Lavoro
Dip. Dopes - Facoltà di Giurisprudenza
Università Magna Græcia di Catanzaro