Le fondazioni universitarie: riflessioni critiche

Antonio Viscomi (*)

1. Mi è stato affidato il compito di proporre alcuni spunti critici per una discussione sulle fondazioni universitarie. A tal fine, intendo articolare il mio intervento in due parti. Nella prima, vorrei richiamare l’attenzione sui più ampi processi di ristrutturazione del lavoro e dell’organizzazione pubblica: in particolare, mi interessa evidenziare le diffuse pratiche di "esternalizzazione" dei servizi che da qualche anno coinvolgono, con alterne movenze e con dinamiche non sempre lineari, la galassia pubblica. Nella seconda parte, a carattere più specifico, mi occuperò precisamente delle fondazioni universitarie. In verità, nella duplice scansione temporale e logica che intendo seguire è lecito intravedere l’operare di un consolidato e tradizionale meccanismo retorico che l’osservazione del dato particolare realizza prendendo avvio e spunto da quello generale. Se mi si consente di essere franco, considero questo stratagemma abitualmente noioso per chi ascolta; in questa occasione, tuttavia, credo che l’assunzione di una prospettiva più ampia sia oltremodo necessaria e che l’osservazione di alcune delle più recenti vicende relative non soltanto al comparto di interesse ma al sistema pubblico nel suo complesso aiuti a comprendere il senso stesso ed il significato della introduzione delle fondazioni nel sistema dell’istruzione e dell’istituzione universitaria.

2. Vorrei subito precisare che per ristrutturazione del lavoro pubblico non intendo riferirmi al processo riformatore avviato con la legge delega del 1992, ma più precisamente (e in modo volutamente provocatorio) ai criteri e metodi di organizzazione e gestione del personale recentemente proposti dal legislatore e caratterizzati dall’uso paradossale, e per alcuni versi anche parossistico, del blocco delle assunzioni. Uno strumento abitualmente (e logicamente) connesso alla ristrutturazionene organizzativa (secondo lo stile noto come "stop & go", segnato dalle sequenza che al blocco fa seguire prima la riorganizzazione e poi le assunzioni) risulta così trasformato una rozza modalità di contenimento della spesa pubblica e di spicciolo incremento della produttività individuale, privo di alcuna reale correlazione con le esigenze e gli obiettivi di efficienza ed efficacia organizzativa. Emblematico, da questo punto di vista, il blocco delle assunzioni del personale docente delle università in un contesto segnato dalla innovazione del sistema didattico. E si tratta di effetti resi ancor più intensi dal fatto che il blocco delle assunzioni a tempo indeterminato si accompagna, con usuale costanza, alla esclusiva autorizzazione alla stipulazione di contratti flessibili come strumento privilegiato per l’acquisizione di forza lavoro (l’altro canale essendo dato dalle procedure di mobilità, sulle quali, forse, sarà bene prima o poi, e per varie ragioni, focalizzare l’indagine critica). Proprio per questo motivo, alla figura professionale tipica del pubblico dipendente incardinato a tempo pieno ed indeterminato si affianca ormai, ed in alcuni settori anche in misura preponderante, una pletora di figure professionali assunte con contratto a termine, di collaborazione o interinale. In questa prospettiva, la necessità di controllare e ridurre i flussi di spesa connessi al personale (quand’anche autonomamente garantiti dalla stessa amministrazione interessata) solleva un difficile dilemma rispetto all’esigenza di valorizzazione della dimensione propriamente organizzativa, la qual cosa si traduce poi nella tensione, e spesso nella vera e propria contraddizione, tra gli effetti centripeti derivanti dalle esigenze di controllo finanziario e le istanze centrifughe innervate e giustificate dai reali bisogni organizzativi.

3. L’altro elemento sul quale vorrei preliminarmente riportare l’attenzione è segnato dalla diffusa valorizzazione legislativa delle pratiche di c.d. esternalizzazione come modello e strumento di rinnovamento organizzativo dei servizi, in funzione tanto di una riduzione dei costi quanto di un incremento di efficienza. Il termine utilizzato è generico, ma consente di rappresentare sinteticamente figure organizzative e fattispecie giuridiche tra loro notevolmente differenziate. A conferma di questa variabilità semantica può essere utile segnalare la legge n. 448 del 2001, che mentre all’art. 16 tratta della "terziarizzazione del servizio", all’art. 28 disciplina la trasformazione dei soggetti pubblici in soggetti privati, (disponendone se necessario anche la trasformazione in società per azioni o fondazioni di diritto privato, ovvero la fusione, l’accorpamento con enti ed organismi che svolgano attività analoghe o complementari), ed all’art. 29 qualifica espressamente a stregua di esternalizzazione l’affidamento a soggetti terzi, eventualmente costituiti ad hoc, dei servizi originariamente prodotti dalla struttura pubblica. Naturalmente, l’ambiguità lessicale potrebbe non essere rilevante, e l’osservazione rivelarsi frutto di mera acribia, se non fosse accompagnata da almeno due elementi di contesto: per un verso, l’incertezza nella qualificazione formale delle diverse ipotesi di esternalizzazione (anche nell’ambito dello stesso testo normativo, come si è visto) sembra mettere in scena una qual sorta di parallela incertezza concettuale del legislatore nella preliminare individuazione e qualificazione di un percorso ordinato di riorganizzazione amministrativa; per altro verso, quella stessa incertezza, accompagnata dal proliferare verboso di riferimenti alla dimensione privatistica delle esternalizzazioni, sembra suggerire un vago senso di ineluttabilità del fenomeno, quasi come le esternalizzazioni fossero l’unico strumento in grado consentire un recupero di efficienza ed una riqualificazione della spesa. Ciò considerando, risulta confermato che il termine "esternalizzazione" rinvia non tanto ad una specifica forma o fattispecie giuridica ma piuttosto ad un processo, complesso e dinamico, di riorganizzazione strutturale e funzionale del sistema di produzione ed erogazione di beni e servizi pubblici.

4. La complessità ed il carattere dinamico di tale processo trovano conferma nel diverso orientamento destinato a riconfigurare in modo snello, e sulla base di una logica di tipo networking o reticolare, il sistema pubblico nel suo complesso. Intendo riferirmi all’estensione anche in altri comparti della pubblica amministrazione delle forme di organizzazione a rete degli stessi enti, e non solo di esternalizzazione della relativa attività, già sperimentate nel comparto delle autonomie locali in virtù della legge 142 ed ora consolidate nel testo unico di cui al d.lg. 267. In questa prospettiva, l’esternalizzazione dei servizi si affianca alla introduzione di modelli di riorganizzazione sistemica delle strutture e degli enti pubblici in grado di ridisegnare alla radice il tradizionale assetto dell’apparato amministrativo basato sulla articolazione territoriale delle competenze. E’ in questa prospettiva che può essere letta la previsione dell’art. 59 della legge 388 del 2000, in virtù della quale si promuovono le aggregazioni di enti decentrati al fine di elaborare strategie comuni e convenzionali per l’acquisto di beni e servizi. Si tratta, com’è facile intuire, dell’embrione originario, ed all’origine meramente volontario, del modello poi sperimentato (con carattere obbligatorio) con la Consip; embrione di disciplina, si diceva, dettato inizialmente solo per le aggregazioni di province e comuni, di aziende sanitarie e ospedaliere, ed inoltre – con previsione naturalmente non priva di interesse – anche per le aggregazioni volontarie di più università appartenenti a regioni diverse.

5. A dire il vero, tale orientamento verso una riorganizzazione leggera (o lean come usano dire i cultori delle scienze aziendali) delle pubbliche amministrazioni non è certo frutto di recente acquisizione: al riguardo, può essere sufficiente segnalare che le norme di legge fin qui frammentariamente citate trovano fondamento giuridico e ragione giustificativa nelle leggi di riforma amministrativa della metà degli anni ‘90: ad esempio, è proprio la legge 59 del 1997 a consentire l’attribuzione a soggetti terzi, anche di natura privata, di funzioni e compiti che non richiedono l’esercizio esclusivo da parte della pubblica amministrazione. Ciò considerando può semmai segnalarsi (e criticarsi) l’asimmetria che in pochi anni si è instaurata tra i tratti generali del sistema di riforma, percepibili con sufficiente chiarezza ed ispirati al principio di sussidiarietà, e i contorni spesso confusi dei singoli provvedimenti che quella trasformazione avrebbero dovuto assicurare in concreto: senza richiamare i provvedimenti relativi alla esternalizzazione dei servizi pubblici locali, che rappresentano un corpo normativo del tutto autonomo, basti qui pensare, ad esempio, alla disciplina dei servizi di pulizia nelle scuole o alla riorganizzazione e privatizzazione dei servizi museali ovvero infine, ma soltanto allo scopo di segnalare il carattere pervasivo della logica di esternalizzazione e privatizzazione dei servizi e delle funzioni, alla disciplina delle società di gestione dei patti territoriali. Da questa caotica ed affannata evoluzione legislativa, caratterizzata da una (affermata ma non sempre convalidata) equazione che l’esternalizzazione dei servizi considera quasi sinonimo di incremento di efficienza del sistema, derivano seri dubbi intorno all’attuale valore sociale ovvero, se si vuole, al senso stesso del servizio e delle funzione pubblica oggi.

6. E’ in questo scenario complesso e dinamico che deve porsi la questione delle fondazioni universitarie. Confesso che la riscoperta odierna delle fondazioni, a motivo della loro peculiare flessibilità organizzativa, presenta tratti non privi di paradosso, soprattutto se si considera la manciata di articoli che disciplina l’istituto già nel testo codice civile e le previsioni del dpr n. 361 del 2000, che regola le modalità di attribuzione della personalità giuridica. In verità, è proprio sulla base di tale regolamentazione basica che l’esperienza concreta ha forgiato due modelli archetipici: da un lato, il modello delle fondazioni di partecipazione, che si configurano sostanzialmente a stregua di patrimoni di destinazione a struttura aperta, e dall’altro lato le fondazioni comunitarie o di comunità, che perseguono la funzione essenziale di fund rising ed operano a stregua di strumenti di intermediazione tra donatori e organizzazioni sociali. Per quanto riguarda le fondazioni universitarie il punto di partenza di ogni discussione è invece segnato dall’articolo 59, comma 3, della legge 388 del 2000. Qui, infatti, dopo avere richiamato nel comma 2 la possibilità di aggregazione tra università di diverse regioni in funzione di una migliore organizzazione dei servizi di acquisto (ciò che prima si è considerato come embrione originario del modello Consip), il legislatore ha introdotto le fondazioni universitarie nel corpo del comma terzo, all’epoca approvato da uno ampio e trasversale schieramento politico, come strumento finalizzato non solo, e neppure tanto, alla riduzione della spesa, ma piuttosto allo svolgimento più efficiente di attività strumentali e di supporto alla didattica e/o alla ricerca. Credo di non errare se affermo che ogni analisi del sistema delle fondazioni, che intenda essere consapevole tanto dell’estensione delle opportunità così offerte al sistema universitario quanto dell’intensità dei rischi ad esso correlati, non possa non focalizzarsi sulla assoluta genericità ed ambiguità concettuale e semantica dei termini utilizzati: ritengo infatti che l’individuazione del carattere di strumentalità di una attività rispetto alla didattica ed alla ricerca, ovvero la definizione della funzione di supporto di quella a questa, siano tali da consentire o comunque da non impedire arbitrarie estensioni, potendo in definitiva risultare strumentale e di supporto l’attività individuata come tale dagli enti di riferimento e da questi poi affidata alle fondazioni. A conferma ulteriore del disordine provocato da una legislazione alluvionale, vorrei qui segnalare ancora l’articolo 29 della legge 448 del 2001, ai cui sensi le pubbliche amministrazioni, sono autorizzate a costituire soggetti di diritto privato per l’affidamento ad esse dei servizi precedentemente svolti all’interno ed al fine di ottenere migliori servizi sul mercato. Segnalo questa norma perché la possibilità concessa alle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto 165, e quindi anche alle università, non è alternativa ma cumulativa rispetto alla facoltà degli atenei di istituire fondazioni. Ond’è che – allo stato – la decisione di esternalizzare attività universitarie può inverarsi tanto nella specie della fondazione, quanto in quella del "soggetto privato" non meglio definito dal legislatore nazionale e perciò rimesso alla più ampia discrezionalità dell’amministrazione interessata, naturalmente entro i limiti previsti in via generale dall’ordinamento.

7. Sulla base giuridica offerta dall’articolo 59, comma 3, è stato adottato il dpr 24 maggio 2001 n. 254. Focalizzando l’attenzione soltanto su alcuni aspetti di tale regolamento, credo necessario segnalare e sottolineare il ruolo cardine assunto dall’ente di riferimento, cioè dall’università o dalle università che hanno concorso a costituire la fondazione, la cui presenza, operando in relazione alle nomine, alla definizione degli indirizzi ed all’esercizio dei successivi controlli, sembra tanto pervasiva da tradurre (o ridurre) in un mero gioco delle parti la dialettica interna agli organi sociali della fondazione. Né sembra possibile enfatizzare in senso contrario il ruolo di garanzia che pure potrebbe essere svolto, in via di ipotesi, dallo statuto, giacché la competenza ad esso affidata dall’art. 3 del regolamento, quella cioè di definire i compiti e le strutture operative, risulta sostanzialmente immunizzata dalle previsioni del regolamento medesimo. In altri termini, è ragionevole ritenere che in sede di redazione degli statuti, ed anche in considerazione della necessaria approvazione ministeriale, gli enti di riferimento siano per così dire vittime del noto effetto mimetico in virtù del quale nello statuto della fondazione confluiscono tutti i possibili compiti che ad una struttura del genere potrebbero essere ipoteticamente affidati sulla base di quanto previsto dal regolamento. Questa considerazione vale anche per la composizione, le competenze e la durata degli organi; ed ancora per i criteri in base ai quali altri soggetti pubblici o privati possono partecipare e per la definizione dei diritti e dei doveri a questi spettanti; per la destinazione degli avanzi di gestione agli scopi istituzionali; per le modalità di erogazione dei servizi a favore degli enti di riferimento, sulle quali dirò tra breve, ed infine per le cause di estinzione. Siffatta centralità sistemica dell’ente di riferimento nella vita organizzativa della fondazione è confermata ancora dalla disciplina degli organi di governo, dal momento che il presidente, il consiglio di amministrazione ed il collegio dei revisori sono soggetti necessariamente assoggettati al controllo dall’ente di riferimento che in effetti nomina il primo, indica la maggioranza assoluta dei membri del secondo (e tramite tale questi anche lo stesso direttore generale), designa infine due membri del collegio dei revisori ed il relativo presidente. Da questo punto di vista, la relazione organizzativa tra enti di riferimento e fondazione risulta del tutto unidirezionale, in guisa tale da attribuire alla fondazione – e in concreto a tutti gli organi sociali, di gestione e di controllo – carattere servente rispetto all’ente di riferimento.

8. Serventi sul piano organizzativo, le fondazioni lo sono anche – sia pure con alcune peculiarità – sul piano funzionale, potendo essere chiamate a svolgere a favore e per conto degli enti di riferimento una o più delle tipologie di attività previste dal regolamento. In verità, le fondazioni non sono (o possono non essere) caratterizzate dall’obbligo di individuazione di un oggetto sociale esclusivo, essendo invece plausibile la definizione di un oggetto sociale tanto ampio da identificarsi con ciascuna e tutte le attività analiticamente indicate nel regolamento: dall’acquisizione dei beni e servizi alle migliori condizioni di mercato (il che vuol dire porsi al di fuori del sistema della contabilità pubblica, essendo la fondazione ente di diritto privato), allo svolgimento di attività strumentali o di supporto alla didattica e alla ricerca scientifica con specifico riguardo al sostegno finanziario delle attività; dalle attività integrative e sussidiarie alla didattica ed alla ricerca, alla realizzazione di servizi e iniziative dirette a favorire le condizioni di studio; dalla cooperazione scientifica e culturale alla promozione di attuazione di iniziativa a sostegno dei trasferimenti risultati della ricerca, stage ed attività formative. In effetti, se è vero (ed è vero) che le fondazioni sono state inizialmente immaginate per assicurare funzioni di collegamento tra impresa ed università, occorre riconoscere che nella concretizzazione regolamentare di quella immagine originaria le funzioni delle fondazioni si sono allargate a dismisura, consentendo la proiezione all’esterno (e cioè proprio l’esternalizzazione) di attività vitali ed essenziali della struttura universitaria. Da questo punto di vista, il carattere generale e generico delle definizioni con cui il legislatore ha individuato le funzioni delle fondazioni è tale da provocare, e comunque da non inibire, comportamenti opportunistici degli enti di riferimento con una conseguente lesione dei valori di libertà connessi alla ricerca scientifica. Insomma, per dirla in breve, il carattere strumentale di una attività quale limite al conferimento in fondazione rischia di trasformarsi in una mera petizione di principio dal momento che il controllo dell’attività considerata strumentale non può che riflettersi sulla stessa attività ritenuta invece essenziale, in guisa tale che la configurazione di quella è in grado di condizionare la reale conformazione di questa.

9. Scendendo più in dettaglio, vorrei brevemente richiamare l’attenzione su alcuni aspetti del regolamento. Un primo punto che mi interessa evidenziare in modo particolare è segnato dall’art. 3 che prevedere l’impegno delle fondazioni di agevolare la partecipazione alla propria attività di enti e amministrazioni pubbliche e di soggetti privati, sviluppando ed incrementando la necessaria rete di relazioni nazionali e internazionali, funzionali al raggiungimento dei propri fini. A ben vedere, l’orientamento networking risulta configurato come una modalità operativa possibile ma non necessaria, potendo sussistere una relazione esclusiva (e dunque chiusa) tra ente e fondazione. Un secondo elemento che vorrei segnalare è dato dall’articolo 12, comma 3, che tratta dei rapporti tra enti e fondazioni relativamente alle prestazioni (di collaborazione, consulenza, assistenza, supporto e promozione) che queste erogano a favore dei primi. La norma affida a specifiche convenzioni il compito di definire siffatta tipologia di rapporti funzionali ovvero, per intenderci, di natura "commerciale": essa, tuttavia, suscita più problemi di quanto appaia a prima vista, consentendosi, o comunque non escludendosi, che l’ente possa conferire alla fondazione specifiche risorse (umane, strumentali e finanzarie) e poi da questa riacquistare i beni o servizi prodotti con quelle medesime risorse. Le ricadute di scelte di tal genere sul sistema di protezione del lavoro credo siano immediatamente evidenti.

10. Al riguardo, il punto di partenza è segnato dall’art. 36 della legge 448 del 2001 ai cui sensi le pubbliche amministrazioni sono obbligate ad apportare le necessarie variazioni in diminuzione alle proprie dotazioni organiche in conseguenza delle attività poste in essere sulla base della medesima legge, fra le quali v’è anche la costituzione delle fondazioni universitarie; naturalmente, ai fini dell’individuazione dell’eccedenza di personale e delle conseguenti procedure di mobilità la norma rinvia alle disposizioni di legge e di contratto vigenti. Dalla formulazione di tale previsione è ragionevole dedurre la consapevole certezza del legislatore intorno al fatto che l’esternalizzazione dei servizi e delle attività non possa determinare altro di diverso da una necessaria ridefinizione in diminuzione della dotazione organica. Questa consapevolezza giustifica l’esplicito richiamo alla disciplina legale e contrattuale di debole tutela in materia di gestione delle eccedenze di personale. E tuttavia, alle previsioni richiamate può forse affiancarsi la disposizione contenuta nell’articolo 4, comma 2-h, del contratto nazionale di lavoro, che comprende tra le materie di contrattazione integrativa le implicazioni sulla qualità del lavoro e sulla professionalità dei dipendenti in conseguenza dell’innovazione degli assetti organizzativi. Magra consolazione, questa indicata, se si considera che l’intervento contrattuale riguarda soltanto gli effetti dell’innovazione organizzativa e non consente di ricondurre in sede contrattuale ciò che invece il regolamento considera a stregua di scelta discrezionale dell’amministrazione di riferimento

11. Per quanto attiene poi all’assetto dei rapporti individuali di lavoro, credo opportuno segnalare la previsione generale dell’art. 31 del d.lg. 165 del 2001, là dove, fatte salve eventuali disposizioni speciali, si dispone che nel caso di trasferimento o conferimento di attività già svolte da pubbliche amministrazioni ad altri soggetti pubblici o privati, al personale che passa alle dipendenze di tali soggetti si applicano l’articolo 2112 del codice civile e si osservano le procedure di informazione e di consultazione di cui all’articolo 47, commi da 1 a 4, della legge 428 del 1990. A prescindere da alcune pur interessanti questioni connesse alla recente promulgazione del d.lg. 276/2003, che espressamente non si applica alle pubbliche amministrazioni ma che pure modifica l’art. 2112 citato (ond’è che può discutersi se ad applicarsi sia il vecchio o il nuovo testo dell’art. 2112), qui interessa invece accennare soltanto a due diverse questioni: la prima è relativa al fatto che la norma indicata riguarda soltanto l’ipotesi di trasferimento o conferimento di attività, restando fuori dal suo campo di applicazione tutte le diverse ipotesi non astrattamente riconducibili alla fattispecie considerata; la seconda è invece relativa alle configurazioni delle garanzie offerte dall’art. 2112, che assicura la continuità del rapporto ma non necessariamente dell’originario trattamento giuridico ed economico. Non sembra invece trovare applicazione, nel caso in questione, l’art. 44 della legge 449 del 1997 ai cui sensi le società private alle quali risultano attribuite le attività dimesse sono obbligate a mantenere per un periodo di tempo concordato, comunque non inferiore a cinque anni, il personale impegnato nello svolgimento delle medesime funzioni trasferite. A prescindere dal dubbio se la garanzia quinquennale riguardi il posto di lavoro o soltanto le mansioni svolte, la norma trova applicazione espressamente ed esclusivamente per le ipotesi di dismissioni di attività pubbliche a beneficio di società privata: tale non sembra essere l’affidamento alla fondazione universitaria delle attività strumentali e di supporto. E tuttavia, gli effetti dell’eventuale trasferimento di personale interno alla fondazione potrebbero essere di non poco momento se e quando ad esso si affianchi un uso spregiudicato della disciplina convenzionale destinata a regolamentare l’erogazione dei servizi dalla fondazione all’ente di riferimento. Non credo sia irragionevole ipotizzare una sorta di trasferimento di attività e di personale dall’ente alla fondazione seguito poi dall’acquisto o dall’appalto, a beneficio dell’ateneo, dei beni o servizi prodotti da quelle stesse unità di personale trasferite alla fondazione. In tal modo, risulta possibile segmentare il ciclo produttivo tipico attribuendo a soggetti diversi, ognuno dei quali titolare di un trattamento giuridico ed economico differenziato, l’esecuzione di un segmento specifico. E’ chiaro dunque che un evento del genere – ben conosciuto nel settore privato – potrebbe sollevare un significativo problema di frantumazione della rappresentanza e un problema di pari rilevanza per l’organizzazione sindacale.

13. Diverso ancora, e mi avvio a concludere, è la situazione dei lavoratori assunti direttamente dalle fondazioni. L’art. 14 del regolamento dispone in tal caso che i rapporti di lavoro dei dipendenti delle fondazioni siano disciplinati dalle disposizioni del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato, prevedendo che essi siano costituiti e regolati contrattualmente. Per i lavoratori assunti direttamente dalle fondazioni la situazione è dunque oltremodo delicata. Da un lato, essi non rientrano nel personale del comparto università: le fondazioni sono soggetti di diritto privato estranee al sistema del pubblico impiego. Dall’altro lato, è plausibile ritenere che la fonte privilegiata di disciplina del nuovo rapporto di lavoro sia il contratto individuale. E’ dunque facile profezia quella di chi prevede una diffusa utilizzazione nell’ambito delle fondazioni di tipologie contrattuali flessibili e temporanee. Non credo, invece, che l’enfatizzazione della volontà individuale sia tale da portare ad una contrattazione salariale al ribasso. Al contrario, mi pare possa essere semmai interesse degli enti di riferimento incentivare l’apporto individuale per via di un incremento dei livelli salariali del personale delle fondazioni rispetto a quelli generalmente previsti per il personale del comparto. Proprio per tale motivo le fondazioni universitarie rischiano di diventare una pietra di inciampo per le politiche sindacali, amplificando le questioni connesse alla perdita di efficienza dell’azione di tutela e di crisi della capacità rappresentativa dei lavoratori operanti nelle nuove strutture. Ricomporre ad unità il quadro degli interessi che l’introduzione delle fondazioni sembra fortemente scardinare rappresenta la sfida, tradizionale ma sempre nuova, delle organizzazioni sindacali operanti nel sistema universitario.

(*) Ordinario di Diritto del Lavoro

Dip. Dopes - Facoltà di Giurisprudenza

Università Magna Græcia di Catanzaro