Da “Paula” di Isabel Allende

 

Nel ricordare un evento storico spesso si fa riferimento a delle cronache e notizie storiche che sono, giustamente, imparziali e scostanti. Da qui la mia scelta di prendere un brano da un libro, per la precisione Paula di Isabelle Allende, in quanto affronta il colpo di stato dell’11 settembre 1973 in Cile da due punti di vista: da una parte una cronaca comunque viva e partecipata dell’accaduto e dall’altra la sua personale giornata di quel tragico martedì. E’ interessante notare come leggendo una semplice cronaca si perda di vista lo “spessore” dell’evento o meglio la gravità dell’accaduto rispetto alle persone “normali”, che sono poi quelle che fanno o subiscono la Storia, ed ecco che con il racconto personale dell’Allende viene fuori la follia della violenza e della guerra e ci ricorda come sia necessario impegnarsi ogni giorno e in ogni occasione per far sì che fatti del genere non accadano mai più. Purtroppo la realtà e ben diversa. Concludo con una frase di una canzone: è tutto un equilibrio sopra la follia. Sally, Vasco Rossi.

Mario (Comitato contro la guerra – Università di Roma “Tor Vergata”)

 

L’11 settembre 1973, all’alba, si ribellò la Marina, e quasi subito dopo l’Esercito, L’Aviazione e infine i Carabinieri, la polizia cilena. Salvador Allende fu avvertito immediatamente, si vestì in fretta, salutò la moglie e partì per il suo ufficio pronto a fare ciò che aveva sempre detto: dalla Moneda non mi faranno uscire vivo. Le sue figlie, Isabel e Tati, che allora era incinta, accorsero accanto al padre. Presto la cattiva notizia si sparse e convennero al Palazzo ministri, segretari, impiegati, medici di fiducia, alcuni giornalisti e amici, una piccola folla che si aggirava per le sale senza saper che fare, improvvisando tattiche di battaglia, barricando le entrate con i mobili secondo le confuse istruzioni della scorta del Presidente. Voci concitate suggerirono che era venuto il momento di chiamare il popolo a una manifestazione di massa in difesa del governo, ma Allende comprese che ci sarebbero state migliaia di morti. Intanto cercava di dissuadere gli insorti per mezzo di messaggeri e telefonate, perché nessuno dei generali ribelli ebbe il coraggio di affrontarlo faccia a faccia. I carabinieri di guardia ricevettero l’ordine di ritirarsi dai loro superiori che si erano affiancati al Golpe, il Presidente li lasciò andare ma volle che consegnassero le armi. Il Palazzo rimase indifeso e i grandi portoni di legno con rinforzi in ferro battuto furono chiusi dall’interno. Poco dopo le nove del mattino Allende calcolò che tutta la sua abilità politica non sarebbe bastata a deviare il tragico corso degli eventi, in realtà gli uomini asserragliati nell’antico edificio coloniale erano soli, nessuno sarebbe accorso in loro aiuto, il popolo era disarmato e senza capi. Ordinò che le donne uscissero, e le sue guardie del corpo distribuirono armi agli uomini, ma pochissimi sapevano usarle. Zio Ramòn aveva avuto la notizia all’ambasciata di Buenos Aires e riuscì a parlare per telefono col Presidente. Allende si congedò dal suo amico di tanti anni: non mi dimetterò, uscirò dalla Moneda solo quando avrà termine il mio mandato presidenziale, quando me lo chiederà il popolo, oppure morto. Intanto le guarnigioni militari in tutto il paese cadevano a una a una in mano ai golpisti e nelle caserme cominciava la purga di coloro che rimanevano fedeli alla costituzione, i primi fucilati di quel giorno indossavano la divisa. Il Palazzo era circondato da soldati e carri armati, si sentirono colpi isolati e poi una fitta sparatoria che perforò gli spessi muri centenari e incendiò mobili e tende al primo piano. Allende uscì sul balcone con un elmetto e un fucile e sparò un paio di raffiche, ma presto qualcuno lo convinse che era una pazzia e lo costrinse a rientrare. Fu concordata una breve tregua per far uscire le donne e il Presidente chiese a tutti di arrendersi, ma pochi lo fecero, la maggior parte si trincerò nelle sale del secondo piano, mentre lui si accomiatava con un abbraccio dalle sei donne che ancora gli rimanevano accanto. Le figlie non volevano abbandonarlo, ma a quell’ora era già vicina la fine e per ordine del padre le fecero uscire a viva forza. Nella confusione uscirono in strada e camminarono senza che nessuno le fermasse, finché un’auto non le raccolse per condurle in un luogo sicuro. Tati non si riprese mai dal dolore di quella separazione e dalla morte del padre, l’uomo che aveva più amato nella sua vita, e tre anni più tardi, esiliata a Cuba, affidò i figli a un’amica e senza prendere congedo da nessuno si sparò. I generali, che non si aspettavano tanta resistenza, non sapevano come agire e non volevano trasformare Allende in un eroe, gli offrirono un aereo per andare in esilio con la famiglia. Vi sbagliate sul mio conto, traditori, fu la risposta. Allora gli annuciarono che sarebbe iniziato il bombardamento aereo. Restava pochissimo tempo. Il Presidente si rivolse per l’ultima volta al popolo attraverso l’unica emittente radio che non era ancora nelle mani dei militari insorti. La sua voce era talmente calma e ferma, le sue parole così determinate, che quel commiato non sembra l’ultimo respiro di un uomo che sta per morire, ma il saluto dignitoso di colui che etra per sempre nella storia. Certamente Radio Magallanes sarà messa a tacere e il timbro tranquillo della mia voce non vi giungerà. Non importa. Continuerete a sentirlo. Sarà sempre accanto a voi. Almeno il mio ricordo sarà quello di un uomo degno, che fu leale alla lealtà dei lavoratori… Hanno la forza, potranno soggiogarvi, ma non si arrestano i processi sociali né col delitto né con la forza. La storia è nostra e la fanno i popoli… Lavoratori della mia terra: ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro in cui il tradimento pretende di imporsi. Resistete sapendo che presto si apriranno le grandi strade da cui passerà l’uomo libero per costruire una società migliore. Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori!

Come uccelli fatali, i bombardieri volarono sul palazzo della Moneda sganciando il loro carico con tanta precisione che le bombe entrarono dalle finestre, e in meno di dieci minuti tutta un’ala dell’edificio era in fiamme, mentre dalla strada i carri armati lanciavano proiettili a gas lacrimogeno. Simultaneamente altri aerei e carri armati attaccavano la residenza presidenziale nei quartieri alti. Fiamme e fumo avvolsero il primo piano del palazzo e cominciarono a invadere le sale del secondo, dove Salvator Allende e alcuni dei suoi seguaci erano trincerati. C’erano corpi da ogni parte, alcuni feriti si dissanguavano rapidamente. I superstiti, soffocati dal fumo e dai gas, non riuscivano a farsi sentire sopra il rumore della fucileria, degli aerei e delle bombe. La truppa d’assalto dell’Esercito entrò attraverso le brecce, occupò il pianterreno in fiamme e ordinò con gli altoparlanti agli occupanti di scendere da una sala esterna di pietra che dava sulla strada. Allende capì che ogni resistenza sarebbe finita in un massacro e ordinò ai suoi di arrendersi, perché sarebbero stati più utili al popolo da vivi che da morti. Li salutò uno per uno con una forte stretta di mano, guardandoli negli occhi. Uscirono in fila indiana con le mani in alto. I soldati li accolsero picchiandoli con i calci dei fucili e prendendoli a pedate, li fecero rotolare giù per la scala e quando furono in fondo finirono di stordirli prima di trascinarli nella strada, dove rimasero sdraiati faccia a terra, mentre un ufficiale impazzito minacciava di fargli passare addosso i carri armati. Il Presidente rimase con il fucile in pugno accanto alla bandiera cilena strappata e insanguinata della Sala Rossa in rovina. I soldati irruppero con le armi puntate. La versione ufficiale è che si appoggiò la canna del fucile al mento, tirò il grilletto e lo sparo gli fracassò il cranio.

 

Quel martedì indimenticabile uscii di casa diretta in ufficio come ogni mattina, anche Michael partì e suppongo che poco più tardi i bambini se ne andassero a piedi a scuola con le cartelle in spalla, senza sapere che le lezioni erano sospese. Dopo alcune centinaia di metri mi accorsi che le strade erano quasi deserte, si vedevano alcune donne di casa sconcertate davanti alle panetterie chiuse e qualche lavoratore che andava a piedi con il pacchetto del pranzo sottobraccio perché non passavano autobus, circolavano solo veicoli militari, in mezzo ai quali la mia auto dipinta a fiori e angioletti sembrava uno scherzo. Nessuno mi fermò. Non avevo la radio per sentire il notiziario, ma anche se l’avessi avuta era già entrata in azione la censura. Pensai di passare a salutare il Tata, forse lui sapeva cosa diavolo stava capitando, ma non volli disturbarlo così presto. Proseguii fino all’ufficio con la sensazione di essermi persa fra le pagine di uno di quei libri di fantascienza che mi piacevano tanto nell’adolescenza, la città sembrava congelata in un cataclisma di un altro mondo. Trovai la porta della casa editrice sbarrata; attraverso i vetri il portiere mi fece segno di andarmene, era un uomo detestabile che spiava il personale per riferire la più piccola mancanza. Dunque questo è un golpe militare, pensai, e tornai indietro per andare a bere una tazza di caffè da nonna Hilda e commentare l’accaduto. In quella sentii gli elicotteri e poco dopo i primi aerei che passavano ruggendo a bassa quota.

Nonna Hilda era sulla porta di casa a guardare la strada con aria desolata, e appena vide avvicinarsi l’auto dipinta che conosceva bene mi corse incontro con le cattive notizie. Temeva per suo marito, un ligio professore di francese che era uscito prestissimo per andare al lavoro, e lei non ne aveva saputo più nulla. Prendemmo il caffè con i toast cercando di metterci in contatto con lui per telefono, ma nessuno rispondeva. Parlai con la Granny che non sospettava nulla e con i bambini che giocavano tranquilli, la situazione non mi parve allarmante e pensai che avrei potuto passare la mattina a cucire con nonna Hilda, ma lei era inquieta. La scuola in cui insegnava suo marito era  in pieno centro, a pochi isolati dal palazzo della Moneda, e dall’unica radio che ancora dava notizie lei aveva saputo che quella zona era occupata dai golpisti. Sparano, stanno ammazzando la gene, dicono che non bisogna uscire di strada per via delle pallottole vaganti, mi ha telefonato un’amica che abita in centro e dice che si vedono morti, feriti e camion pieni di arrestati, sembra che ci sia il coprifuoco, tu sai che cosa sia? Balbettava nonna Hilda. No, non lo sapevo. Benché la sua angoscia mi sembrasse esagerata, io comunque avevo circolato senza che nessuno mi molestasse e così mi offrii di andare a cercare suo marito. Quaranta minuti più tardi parcheggiai davanti alla scuola, entrai dalla porta socchiusa e non vidi nessuno, cortili e aule erano deserti. Venne fuori un vecchio bidello strascicando i piedi e mi indicò con un gesto dove stava il mio amico. Non può essere, una rivolta militare! Ripeteva incredulo. In un’aula trovai il professore seduto davanti alla lavagna, con una risma di carta sulla cattedra, una radio accesa e la faccia tra le mani, singhiozzando. Ascolta, disse. Fu così che sentii le ultime parole del Presidente Allende. Poi salimmo al piano più alto dell’edificio, da cui si vedevano i tetti della Moneda, e aspettammo senza sapere cosa, perché ormai non davano più notizie, tutte le stazioni radio trasmettevano inni marziali. Quando vedemmo passare gli aerei, volando bassissimi, sentimmo il fragore delle bombe e una spessa colonna di fumo si alzò verso il cielo; ci sembrò di essere intrappolati in un brutto sogno. Non potevamo credere che avessero osato attaccare la Moneda, cuore della democrazia cilena. Che ne sarà del compagno Allende? Chiese il mio amico con voce rotta. Non si arrenderà mai, dissi. Allora comprendemmo finalmente la portata della tragedia e il pericolo che stavamo correndo, salutammo il bidello che si rifiutò di abbandonare il suo posto, salimmo sulla mia auto e partimmo verso i quartieri alti imboccando strade secondarie, per evitare i soldati. Non mi spiego come riuscimmo ad arrivare senza inconvenienti fino a casa sua, né come feci poi tutto il tragitto fino alla mia, dove mi aspettava Michael molto inquieto e i bambini felici per quelle vacanze inaspettate.

A metà pomeriggio seppi da una telefonata confidenziale che Salvator Allende era morto.

Le linee erano sovraccariche e le comunicazioni internazionali praticamente interrotte, ma riuscii a chiamare i miei genitori a Buenos Aires per dar loro la terribile notizia. La conoscevano già, la censura che avevamo in Cile non valeva per il resto del mondo. Zio Ramòn espose la bandiera a mezz’asta in segno di lutto e rassegnò immediatamente alla Giunta Militare le sue dimissioni irrevocabili. Insieme a mia madre compilò un inventario rigoroso dei beni pubblici che conteneva la residenza, e due giorni dopo consegnarono l’Ambasciata. Così finirono per loro trentanove anni di carriera diplomatica; non erano disposti a collaborare con la Giunta, preferirono l’incertezza e l’anonimato. Zio Ramòn aveva cinquantasette anni e mia madre cinque di meno, avevano entrambi il cuore spezzato, il loro paese aveva ceduto all’insensatezza della violenza, la loro famiglia era dispersa, i loro figli lontani, gli amici morti o in esili, si trovavano senza lavoro e con poche risorse in una città straniera, dove si presentiva già l’orrore della dittatura e l’inizio di quella che poi si sarebbe chiamata la Guerra sporca. Presero commiato dal personale, che dimostrò loro affetto e rispetto fino all’ultimo momento, e tenendosi per mano uscirono a testa alta. Nei giardini c’era una folla che gridava le parole d’ordine di Unità Popolare, migliaia di giovani e vecchi, di uomini, donne e bambini che piangevano la morte di Salvador Allende e dei suoi sogni di giustizia e libertà. Il Cile era diventato un simbolo.”