SVEVA HAERTTER (RSU SIB ROMA)

Gentile dottor Lerner, circa un anno fa Le feci leggere un testo chiedendoLe se fosse interessato a firmarlo. Non ebbi più Sue notizie e pochi mesi dopo il testo venne pubblicato su manifesto, Liberazione e l'Unità sottoscritto da un certo numero di uomini e donne israeliani ed italiani di religione e/o origine ebraica, come "appello di ebrei per la pace" con il titolo "Non in mio nome". I concetti espressi nel testo erano semplici e chiari: si chiedeva la fine dell'occupazione militare della Cisgiordania e di Gaza e lo smantellamento degli insediamenti; la creazione di uno stato palestinese a fianco dello stato israeliano sulla base dei confini del 1967, comunque sicuri per entrambe le parti; il riconoscimento di Gerusalemme come capitale condivisa dai due stati. Inoltre si invitava il governo di Israele a: riconoscere che la nascita dello stato d'Israele, che rappresentò un modo con cui l'umanità cercò di riconoscere un debito contratto con il popolo ebraico nei secoli, determinò con la conseguente guerra del 1948 un fatto carico di drammi e terribili conseguenze per il popolo palestinese, e quindi ad accettare oggi di essere parte attiva nella ricerca di una soluzione concretamente attuabile del problema dei profughi; garantire parità di diritti e giustizia per i palestinesi con cittadinanza israeliana; operare per un'equa spartizione delle risorse tra i due stati, per la giustizia sociale ed economica per i loro cittadini e cittadine; impegnarsi a trovare la propria funzione specifica per un pieno inserimento culturale, economico e sociale nell'area. Volevamo contribuire con questo gesto alla creazione di una reale mobilitazione per una pace giusta e duratura nell'area, sollecitando un impegno del governo italiano e dell'Europa in favore dell'intervento immediato di una forza internazionale di pace.

 

A quell'epoca "quell'arma nuova - il corpo umano dei cosiddetti martiri trasformato in arma esplosiva" non aveva ancora insanguinato le strade e le piazze delle città israeliane. Erano però già stati uccisi circa 200 uomini, donne e bambini palestinesi e 13 palestinesi con nazionalità israeliana. Quel testo era un grido di allarme e di dolore. E forse se avessimo perso tutti meno tempo in chiacchiere avremmo potuto evitare la degenerazione cui stiamo assistendo e forse avremmo potuto addirittura salvare delle vite umane.

 

Tra chi invece non ha perso tempo c'è proprio Luisa Morgantini che con le Donne in Nero e non solo, già dall'inizio dell'Intifada diede vita ad una staffetta di donne che si recavano in Israele e Palestina per incontrare altre donne, israeliane e palestinesi, cercando di capire cosa fosse possibile fare per ricostruire la pace. A Luisa va riconosciuto il merito di avere contribuito in modo determinante all'avvio questa straordinaria prova di coraggio e di determinazione che in questi giorni ha spinto e spinge ancora tante e tanti altri a mettersi in gioco in prima persona fino a rischiare la vita per riportare la pace.

 

Con lei ho avuto modo di andare ad un incontro organizzato da B'Tselem, l'organizzazione israeliana che si occupa del rispetto dei diritti umani nei territori occupati. La sala dell'università di Tel Aviv era gremita e la pacifista israeliana Neta Golan (una delle persone più generose e coraggiose che io abbia mai conosciuto e che mentre scrivo probabilmente si trova ancora nel quartier generale di Arafat) fece in modo che ci venisse data la possibilità di parlare. Dal palco dissi poche cose: ĞDi quel volantino intitolato io donna vado in Palestina avrei dovuto farne uno a parte con scritto io donna ebrea vado in Palestina e quando tornerò in Italia voglio raccontare a tutti e specialmente agli ebrei cosa c.... sta succedendo qui, perché in questo modo voglio dire forte e chiaro al governo che è responsabile di queste violenze che gli nego qualsiasi possibilità di legittimare il proprio operato dicendo di fare tutto questo in mio nomeğ. Solo dopo un po' ho iniziato a rendermi conto che tutti stavano battendo le mani, che molti si erano alzati in piedi e che come me avevano le lacrime agli occhi. In un attimo ho avuto intorno una folla di ragazzi e ragazze che mi chiedevano di fare quello che avevo detto e soprattutto di non mollare.

 

E' anche per loro che sabato prossimo insieme ad altri ed altre sarò di nuovo in piazza con lo striscione "ebrei contro l'occupazione". Se non per altri almeno per loro ora provo a chiederLe nuovamente di avere quella dose di coraggio in più nel denunciare la politica del governo israeliano in modo chiaro ed esplicito, facendolo in quanto ebreo ed insieme ai palestinesi, di scendere in piazza insieme a me con quello striscione per fare quello che altri non possono o non vogliono fare per fermare questo massacro, sperando che non sia già troppo tardi.