L’intervento di Fulvio Vassallo Paleologo:
UNA TREGUA PER POCHI SPICCIOLI E QUALCHE PROMESSA Contributo per la difesa e la riqualificazione dell’universita’ pubblica.
Secondo notizie di stampa il ministro Gelmini avrebbe ottenuto dalla Conferenza dei Rettori, dal Consiglio universitario nazionale e dal Consiglio nazionale degli studenti una tregua negli atenei con la promessa di avviare un “tavolo permanente di consultazione”, mentre il governo sta procedendo per decreto legge a stravolgere l’assetto degli atenei italiani, con norme che saranno immediatamente operative prima ancora che il confronto annunciato possa prendere avvio. Il decreto legge n. 112 del 25 giugno scorso prevede all’art. 16 la possibilita’ di trasformare le Universita’ in fondazioni di diritto privato, in nome della flessibilita’ e della competizione, con una sospensione delle regole di contabilita’ dello Stato, anche se rimane il controllo da parte della Corte dei Conti, senza precisare pero’ lo stato giuridico del personale gia’ alle dipendenze delle universita’ e le modalita’ del futuro reclutamento.
Piuttosto che promuovere una riforma e maggiori controlli dei meccanismi di spesa degli atenei (a partire dai policlinici universitari) con la moralizzazione delle procedure di reclutamento e della progressione di carriera, le compatibilita’ derivanti dalla manovra economica complessiva del governo Berlusconi stanno costituendo l’occasione, si potrebbe dire il pretesto, per portare a compimento il processo di privatizzazione delle universita’ statali. Un processo che, avviato dal ministro Ruberti alla fine degli anni 80, ha segnato tappe successive con il contributo dei diversi governi che si sono succeduti nel tempo, sempre sotto la pressione dei gruppi accademici piu’ forti e della Confindustria che hanno condizionato, nei tempi e nei contenuti, gli interventi legislativi e le misure regolamentari affidate alla discrezionalita’ del ministro di turno. Un processo che alcune componenti studentesche e le organizzazioni dei docenti, a partire dal movimento della Pantera nel 1989, avevano gia’ denunciato per i suoi effetti devastanti, consistenti nello svuotamento delle prerogative decisionali degli organi di governo, malgrado l’adozione dei nuovi statuti, nella svalutazione dei titoli di studio e nella proliferazione dei corsi di laurea, generalmente allo scopo di creare nuovi posti di professore e garantire cosi’ la riproduzione della casta accademica e delle sue logiche di cooptazione e di selezione “familiare”.
Il decreto legge n.112 del 25 giugno 2008 pone adesso le premesse, pur tra numerose contraddizioni ed omissioni, per portare a compimento il disegno di privatizzazione degli atenei, in realta’ per distruggere l’universita’ pubblica favorendo le realta’ accademiche piu’ forti, cancellare lo stato giuridico unitario gia’ acquisito dei dipendenti universitari, tutti, ed inserire forti criteri di gerarchizzazione tra gli atenei e quindi tra i docenti, una parte dei quali condannata a vita
ad una situazione di precariato. Tra le altre misure, il blocco del turn-over del personale si presenta come la pietra tombale dell’universita’ pubblica. Nessuna attenzione per le esigenze reali degli studenti e delle loro famiglie, dietro le solite formule di rito che richiamano l’autonomia universitaria, e nessuna risposta per le attese dei 40. 000 docenti precari che garantiscono oggi il funzionamento delle universita’. Anzi la prospettiva di un ulteriore privatizzazione delle universita’-fondazioni allontana le possibilita’ di un inquadramento in ruolo e prospetta il precariato a vita e la trasformazione dei rapporti contrattuali a tempo indeterminato in contratti a termine. Il livello della ricerca universitaria italiana, ancora apprezzato a livello internazionale, risultera’ drasticamente ridotto. La cd. fuga dei cervelli continuera’ inarrestabile. E non riguardera’ solo i piu’ giovani.
Il perno centrale della svolta che si vuole imporre agli atenei per decreto legge consiste nella trasformazione delle universita’ in fondazioni, soggetti di diritto privato, con una estesa deregolamentazione dei rapporti di lavoro, per i quali si prevedono soltanto vincoli al turn-over e tagli salariali. Come se questa impostazione “tatcheriana” garantisse una maggiore “produttivita’” degli atenei, nella competizione nazionale ed internazionale, e nuove occasioni di inserimento (naturalmente precario) per i giovani ricercatori, oltre che un piu’ stretto collegamento tra universita’ e
mondo del lavoro. Il decreto prospetta anche come novita’ una fiscalita’ di vantaggio per quei privati che volessero versare contributi a queste nuove fondazioni e apre la strada a probabili incentivi finanziari statali per quegli atenei che “optassero” per questa forma di privatizzazione. Di fronte alla drammatica carenza di finanziamenti pubblici molti atenei potrebbero essere “costretti” a trasformarsi in universita’-fondazioni.
Di fronte a questo progetto organico di demolizione dell’universita’ pubblica, gia’ annunciato da anni, appare veramente sorprendente che la Conferenza dei rettori, il CUN e il Consiglio nazionale degli studenti, che avevano espresso forti perplessita’ nel merito del disegno complessivo, avvertendo il rischio di una chiusura a breve di molti atenei, trovino improvvisamente le ragioni della tregua nell’apertura di un “tavolo di consultazione”. Nel caso del CUN addirittura si giunge a promettere, dopo avere rilevato le “criticita’” delle proposte governative, il sostegno per
l'”azione e l’intervento del ministro”. Allo stato dei fatti pero’, da parte del ministro, solo vaghe promesse e nessuna certezza che Tremonti garantisca agli atenei con difficolta’ gestionali la corresponsione dei fondi di finanziamento ordinario (FFO) garantiti in passato. E’ a rischio dunque la stessa possibilita’ di un regolare svolgimento delle attivita’ didattiche e di ricerca, a partire dal prossimo anno accademico.
Allo stupore potrebbe subentrare la indignazione, e forse una diversa capacita’ di risposta, anche sul terreno delle iniziative politiche o delle azioni giudiziarie, se solo si considerasse la totale assenza di chiarezza nella definizione delle diverse fasi con le quali, a partire dal taglio del FFO, con il nuovo decreto legge si vorrebbe incentivare il passaggio dall’universita’ pubblica all’universita’ fondazione, soggetto di diritto privato, fasi che pongono gravi dubbi sia dal punto di vista giuridico che da quello economico e gestionale.
Il nostro ordinamento conosce gia’ le fondazioni come strumento per esternalizzare compiti istituzionali delle universita’, in base all’art. 59 co. 3, 1 della legge n. 388 del 2000. L’art. 1 del DPR 254 del 2001 che individua la Fondazione come strumento di riorganizzazione del sistema universitario e di parziale “privatizzazione” dell’istruzione pubblica, definisce in dettaglio le attivita’ e i servizi che possono essere esternalizzati attraverso la costituzione di fondazioni: dall’acquisto di beni e servizi, agli uffici tecnici, centri di calcolo, centri informatici e altri servizi, compresa una parte dell’attivita’ formativa (master) e i servizi per il diritto allo studio fin qui gestiti dalle Regioni. Come rileva Ferdinando Di Orio, Presidente del Coordinamento nazionale sulle Fondazioni, l’impostazione del progetto Tremonti-Gelmini e’ molto diversa da quella rappresentata dalle Fondazioni attualmente operanti “a fianco” del sistema universitario nazionale. La proposta del governo coincide di fatto con una privatizzazione definitiva degli Atenei, con la loro trasformazione in fondazioni di diritto privato, mentre le Fondazioni Universitarie previste dal DPR 254 del 2001, rappresentano invece enti strumentali degli Atenei, che potrebbero assolvere “la funzione di intessere relazioni significative con il territorio, attrarre risorse, raccogliere istanze, produrre idee e suggerimenti per la costruzione di progetti innovativi”. Non senza rischi evidenti, anche in questo caso, che i processi di privatizzazione siano orientati ad un mero contenimento della spesa pubblica piuttosto che ad una sua effettiva riqualificazione.
Adesso, dunque, con il decreto legge n.112 del 2008 si vorrebbe operare il passaggio dalla fondazione come strumento di servizio delle universita’ alla trasformazione delle stesse universita’ in fondazioni.
Secondo il decreto legge proposto dal governo Berlusconi “Le fondazioni universitarie subentrano in tutti i rapporti attivi e passivi e nella titolarita’ del patrimonio dell’Universita’. Al fondo di dotazione delle fondazioni universitarie e’ trasferita, con decreto dell’Agenzia del demanio, la proprieta’ dei beni immobili gia’ in uso alle Universita’ trasformate”.
L’ art. 16 del decreto legge risulta in violazione con l’art. 33 della Costituzione italiana che sancisce l’autonomia universitaria e con l’intero Titolo V della stessa Costituzione, che attribuisce allo Stato la competenza in materia di istruzione universitaria e impone quindi uno stato giuridico unico e pubblico del personale delle universita’ statali. L’autonomia universitaria, richiamata in apertura del decreto legge, non puo’ diventare un pretesto per aggirare le leggi dello stato e persino il dettato costituzionale.
Come osserva Alessandro Somma, “quantomeno curiosa e’ la pretesa di attuare la Costituzione – violata tra l’altro in quanto la materia non presenta i requisiti di necessita’ ed urgenza richiesti per ricorrere al decreto legge (art. 77) – che nella parte richiamata (art. 33) nulla dice di utile a fondare la trasformazione degli atenei pubblici in fondazioni di diritto privato. Secondo Somma “la Costituzione afferma cose incompatibili con un simile proposito: enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato (art. 33 c. 3). E qui siamo di fronte, piu’ che alla costituzione di un istituto di educazione privato, alla trasformazione di un ente pubblico in ente privato, con notevoli oneri per lo stato (v. commi 2 e 3). Il tutto secondo una logica che sembra oramai tipica della privatizzazione all’italiana: in verita’ una svendita o un regalo dei
gioielli di famiglia. Molti dubbi suscita la possibilita’ che a decidere la privatizzazione sia il Senato accademico, che ricorre a tal fine ad una maggioranza non particolarmente qualificata (solo la maggioranza assoluta dei suoi membri). Il fatto poi che il Mef abbia voce in capitolo, conferma il carattere di misura volta al contenimento della spesa come reale motivo ispiratore della riforma”. (nota 1).
Il punto non consiste certo nella qualificazione astratta delle fondazioni universitarie. Il decreto legge non fornisce al riguardo una disciplina esaustiva delle nuove “fondazioni universitarie” che si
vorrebbero introdurre, non piu’ come strumento di servizio delle universita’, ma come espediente per una trasformazione della natura dell’istituzione universitaria, nel senso di una definitiva privatizzazione dell’intero sistema dell’istruzione superiore. Ma la stessa privatizzazione appare piu’ un pretesto per attaccare lo stato giuridico unico dei lavoratori e per contenere le risorse destinate
all’universita’ che una seria prospettiva di riforma effettivamente perseguita dal legislatore, ed anche la ventilata privatizzazione sembra arrestarsi a meta’, come e’ confermato dalla soggezione delle nuove universita’/fondazioni al controllo da parte della Corte dei Conti, in base all’art. 16 comma 11 del decreto legge. Il Consiglio di Stato, peraltro, con una importante sentenza, ha rilevato che “devono considerarsi enti pubblici anche le societa’ che svolgono attivita’ di rilievo oggettivamente pubblicistico e che proprio per questo sono tenute ad operare come pubbliche amministrazioni” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 17/10/2005 n. 5830), e dunque anche la trasformazione delle Universita’ in Fondazioni di diritto privato potrebbe non essere risolutiva per cancellare gli
istituti di garanzia dei contratti di lavoro dei dipendenti pubblici che prestano servizio nelle universita’. E lo stesso rilievo “oggettivamente pubblicistico” delle attivita’ delle fondazioni universitarie potrebbe impedire alle universita’/fondazioni l’adozione di scelte basate esclusivamente sul criterio della riduzione delle spese.
La riforma annunciata, rimessa peraltro ad una iniziativa, piu’ apparente che sostanziale, delle singole sedi e ad un forte e persistente potere di indirizzo del Ministero della pubblica istruzione, anche attraverso la leva dei finanziamenti, appare contenere contraddizioni ed omissioni che
rischiano di paralizzare ulteriormente le attivita’ universitarie.
In presenza di una trasformazione degli atenei in fondazioni che potra’ procedere “a macchia di leopardo”, sulla base dei deliberati a maggioranza assoluta da parte dei Senati accademici, si rischia una grave differenziazione degli atenei con crescenti squilibri tra nord e centro-sud del paese, a seconda dei rapporti con il sistema delle imprese e delle capacita’ contributive degli enti locali.
Come si pensa di garantire la parita’ di trattamento in base all’art. 3 della Costituzione a quei dipendenti, docenti e personale tecnico ed amministrativo, che potrebbero essere discriminati nella retribuzione e nelle prospettive professionali, solo per il fatto di prestare servizio presso una universita’ pubblica o una fondazione di diritto privato? Che fine faranno i contratti collettivi di lavoro? Di certo si pongono le premesse per scatenare una conflittualita’ diffusa a livello di senati
accademici, con conseguenze che potrebbero essere devastanti per le condizioni gia’ critiche di molte sedi universitarie. Sarebbe possibile adire i giudici ordinari per invocare la nullita’ degli atti costitutivi delle fondazioni, o impugnare atti deliberativi di natura contrattuale, in base all’art. 1418 del codice civile, come si potrebbe chiamare in causa la Corte di Giustizia dell’Unione Europea con una questione pregiudiziale, per contrastare disposizioni regolamentari o negoziali che violino la parita’ di trattamento tra i lavoratori dell’universita’, stabilendo ad esempio una disparita’ di retribuzione, se dipendenti dal medesimo datore di lavoro, a parita’ di qualifica e di lavoro prestato.
Per non parlare della possibilita’ di fare valere, anche da parte dei lavoratori precari, i diritti quesiti davanti al giudice del lavoro.
Secondo il comma sesto dell’art. 16 del decreto, “contestualmente alla delibera di trasformazione vengono adottati lo statuto e i regolamenti di amministrazione e di contabilita’ delle fondazioni universitarie, i quali devono essere approvati con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’universita’ e della ricerca, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze. Lo statuto puo’ prevedere l’ingresso nella fondazione universitaria di nuovi soggetti, pubblici o privati”.
Quale autonomia universitaria potra’ essere garantita da universita’ trasformate in fondazioni che dipendono da contribuzioni pubbliche e private, secondo criteri di valutazione dei risultati della didattica e della ricerca che non potranno certo prescindere dagli interessi privati dei finanziatori esterni? Come si garantiranno la democraticita’ e le prerogative decisionali degli organi di governo dell’universita’/fondazione con le esigenze dei soggetti finanziatori, pubblici o privati, anche dal punto di vista del controllo della ricerca e del reclutamento? Come si attuera’ il passaggio delle competenze dai Senati accademici ai consigli di amministrazione delle nuove universita’-fondazioni? Che tipo di regime giuridico e gestionale sara’ stabilito per i policlinici universitari ? Quali garanzie si potranno offrire ai diritti quesiti dei lavoratori dell’universita’ ed al diritto al riconoscimento pieno delle professionalita’ maturate al personale docente e tecnico amministrativo? Si osserva da tempo come anche le fondazioni universitarie cd. “strumentali” presentino gravi rischi per i lavoratori del comparto universitario per il ricorso sempre piu’ massiccio al cd. “outsourcing” (cioe’ al reperimento di professionalita’ fuori dalle Universita’ attraverso consulenze, prestazioni professionali o di uso e abuso del lavoro degli studenti collaboratori, laureandi, volontari). Con la trasformazione delle universita’ in fondazioni la situazione potrebbe diventare ancora piu’ confusa, soprattutto nell’area dei servizi socio-sanitari, a danno dei diritti degli utenti (oltre che degli studenti) e della sicurezza lavorativa del personale in servizio e con un massiccio taglio degli organici tecnico-amministrativi degli atenei e dei policlinici universitari. Quale parita’ di trattamento potra’ essere garantita alle Universita’ delle diverse regioni italiane, ed agli studenti, in particolare quelli “meritevoli e capaci” che avranno la ventura di nascere in regioni diverse? Cosa accadrebbe se il Ministero della pubblica istruzione stabilisse contributi finanziari piu’ consistenti solo per quegli atenei che hanno accettato la trasformazione in fondazione o che sono stati in grado, piu’ di altri, di raccogliere finanziamenti privati? L’unica prospettiva certa, ed immediata, e’ un aumento indiscriminato delle tasse universitarie, una forte differenziazione dei percorsi formativi e dei titoli di studio rilasciati dalle universita’ ed una riduzione degli investimenti statali e regionali per il diritto allo studio.
Secondo l’art. 16 comma 7 del decreto legge, “le fondazioni universitarie adottano un regolamento di Ateneo per l’amministrazione, la finanza e la contabilita’, anche in deroga alle norme dell’ordinamento contabile dello Stato e degli enti pubblici, fermo restando il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”. Non mancano su questo punto le perplessita’ per la genericita’ ed il contenuto complessivo delle previsioni del decreto legge che si risolve in sostanza in un atto di indirizzo politico, rinviando al successivo regolamento di Ateneo e dunque ai Senati
accademici, la definizione delle modalita’ di trasformazione delle Universita’ in Fondazioni. Con il rischio, anzi con la certezza che ciascuna sede possa adottare un diverso Regolamento di Ateneo.
Le perplessita’ aumentano se si considera la trasformazione delle universita’ in fondazioni di diritto privato sul piano delle relazioni internazionali e del diritto comunitario. Persino il CUN ribadisce
infatti come “la ricerca e l’alta formazione costituiscono – come stabilisce la Dichiarazione di Berlino – finalita’ di interesse pubblico e una pubblica responsabilita’”. Finalita’ di interesse pubblico
che sono ribadite nella prospettiva della creazione di uno “Spazio europeo comune dell’istruzione superiore” nel 2010, e che al contrario non sembrano affatto garantite dal decreto legge che il Parlamento si appresta ad approvare in pochi giorni. Come ricorda Pasquale Nappi, va richiamata la definizione comunitaria di “organismo di diritto pubblico”. Si osserva a tale riguardo come “mentre lo Stato italiano privatizzava, al fine di garantire la concorrenza nel mercato dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, la Comunita’ europea pubblicizzava, imponendo agli Stati membri la figura giuridica dell’organismo di diritto pubblico (Direttive 89/440; 36 e 37 del 1993 e direttiva sui servizi 92/50).” (nota 2).
Nappi ricorda inoltre che a livello comunitario “se la disciplina speciale prevista per una fondazione “privatizzata” contiene anche uno soltanto dei seguenti indici sintomatici: la gestione e’ soggetta a controllo da parte dello Stato, degli enti pubblici territoriali o di altri organismi di diritto pubblico; l’attivita’ e’ finanziata in modo maggioritario da questi ultimi; gli organi di amministrazione direzione o vigilanti sono costituiti da membri dei quali piu’ della meta’ e’ designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico, non si tratta di una fondazione di diritto privato, bensi’ di un ente pubblico, qualunque sia il nomen usato dal legislatore” (Merusi). In un momento nel quale in Europa si sta ristabilendo un rapporto piu’ equilibrato tra pubblico e privato nel campo della ricerca e della formazione universitaria, l’Italia intraprende la strada della liberalizzazione selvaggia che ha dimostrato tutti i suoi limiti in quei paesi, come la Gran Bretagna, nella quale e’ stata sperimentata. Con il risultato che e’ proprio la Gran Bretagna il paese che oggi e’ costretto a ricorrere alla “importazione” di cervelli dall’estero per mantenere alto il livello della ricerca scientifica e garantire una dignitosa offerta didattica. La trasformazione delle universita’ pubbliche in fondazioni e le altre misure contenute nel decreto legge n.112 del 25 giugno 2008 rischiano ancora una volta, come nel caso di altri provvedimenti recentemente approvati dal governo in materia di sicurezza, di allontanare l’Italia dall’Europa e di mettere a rischio la stessa possibilita’ che il nostro paese possa partecipare alla creazione di uno “spazio comune europeo” per la formazione universitaria e la ricerca.
I processi di riqualificazione, a partire da un rigoroso controllo della gestione amministrativa, della valutazione dei risultati della ricerca e dell’offerta didattica, dalla lotta al precariato ed alla gestione personalistica del reclutamento e delle carriere, si possono realizzare anche mantenendo il carattere pubblico dell’istituzione universitaria e dello stato giuridico dei suoi dipendenti, unica garanzia dell’autonomia dell’Universita’. Le considerazioni che precedono evidenziano il rischio che una riforma di sapore fortemente propagandistico ed ideologico, porti a compimento un processo degenerativo bipartisan che aveva gia’ attaccato da tempo l’Universita’ pubblica, combinando i fattori negativi che caratterizzano il sistema pubblico ed il sistema privato dell’istruzione superiore. Un decreto legge da convertire in pochi giorni, alla vigilia delle ferie estive, sta compromettendo, forse definitivamente, il futuro dell’Universita’ italiana, e di quanti vi lavorano e vi studiano. No, non si tratta proprio di difendere privilegi corporativi o di battere cassa al ministero, come alcuni rettori continuano a ritenere.
Fulvio Vassallo Paleologo Universita’ di Palermo